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sabato 28 novembre 2015

Keith Richards, la pietra rotola ancora: "Sono contro l'autorità. Non dirò mai Yes Sir!"

 da Repubblica.it di GIUSEPPE VIDETTI


Incontro con il chitarrista del Rolling Stones che, a quasi vent'anni dal suo ultimo album solista, pubblica "Crosseyed Heart". Tra un tiro di sigaretta e l'altro ci ha spiegato qual è il segreto della sua forza: "Una canna la mattina? Scandalo! Ma cazzo, sono Keith Richards, cosa si aspettano da me?"


NEW YORK – Con quello straccio tra i capelli e le rughe profonde, sembra un chitarrista zingaro o un Cristo sofferente scolpito su un tronco d’ulivo. Poi appena dopo l’intervento della procace truccatrice – che congeda con un bacio non proprio casto – gli occhi bistrati, jeans neri e camicia in seta a piccoli pois tagliati di fresco dalle forbici punk di Hedi Slimane, Keith Richards è pronto per il pomeriggio da rockstar a Manhattan (non in una delle solite tane da divo, un boutique hotel sulla Bowery, due passi dall’ex CBGB’s, tempio del punk), una fuga di due giorni dal Connecticut, dove vive con la moglie Patti Hansen. Consumato dalla vita on the road, segnato dalle cattive abitudini, prosciugato dalle infinite trascuratezze cui solo agli immortali è dato sopravvivere, Keef (per gli amici) potrebbe avere i suoi 71 anni o i 969 di Matusalemme; nel rock è la maschera che parla, e la sua è potentissima. Se ne frega degli slogan, di quello che han scritto su di lui, grande chitarrista posseduto da mille demoni o Lucifero partorito durante un voodoo a base di blues. "Ma quale diavolo!", esclama scoppiando in una risata catarrosa e subito aspirando voluttuosamente dall’ennesima Marlboro come fosse una riserva d’ossigeno, "l’unica volta che ne ho visto uno aveva il volto del dentista. Era il mio incubo da bambino, per colpa sua ho avuto per anni una bocca sgangherata. Ora i denti sono a posto, in America hanno fatto miracoli dopo che con l’eroina ci ha dato un taglio.

Quale che sia il suo interlocutore, Richards pretende normalità, confidenza, allegria. Continua a essere una star riluttante dopo 53 anni da Rolling Stone con oltre duecento milioni di dischi venduti, riff memorabili che hanno segnato in maniera indelebile la storia del rock (Gimme Shelter e Jumpin’ Jack Flash sono solo esempi), l’ennesimo trionfale tour mondiale concluso da pochi giorni, una mostra celebrativa in febbrile preparazione a Londra (Exhibitionism, alla Saatchi Gallery, dal 5 aprile al 4 settembre 2016), un’autobiografia best seller a dir poco rivelatoria – Life (2010) che affettuosamente chiama La Bibbia – un audiobook per bambini, Gus and Me, disegnato dalla figlia Theodora, in cui narra la storia dell’adorato nonno materno e della sua prima chitarra, e ora un disco solista (il terzo) dopo quasi vent’anni, Crosseyed Heart, che esce il 18 settembre. "Tutto è strano come è sempre stato, come deve essere", dice ridendo di cuore. "Ho fatto un disco, ne faccio di rado. Tre anni fa, avevo appena finito di scrivere La Bibbia, mi resi conto che non facevo niente da troppo tempo. Mi sentivo strano – ormai so che quando la situazione si fa strana cominciano a materializzarsi buone cose. Scrivere un’autobiografia è vivere due volte, una sensazione spaventosa, come andare dallo psicanalista suppongo (chi c’è mai stato?)".



C’è un Keith professionale, composto, paziente, che si sottopone alla sfilza di domande – registratore acceso. E c’è un Keef divertente, ironico, buontempone che a microfono spento ha voglia di ricordare, montare e smontare leggende metropolitane, beffarsi delle frasi a effetto che i "motherfucker" sparano come scoop: "Una canna la mattina? Scandalo! Ma cazzo, sono Keith Richards, cosa si aspettano da me? Sgt. Pepper un disco di merda? Blasfemo! Avrò ben il diritto di esprimere un’opinione; fu quello il disco ci costrinse a incidere nel ’67 Their Satanic Majesties Request, il più brutto degli Stones. Ne parlavo anche con John (Lennon), un fratello, ne ho riparlato di recente con Paul (McCartney), un amico". Dalla bocca rugosa espira una nuvola di fumo denso, ritratto perfetto del drago che Johnny Depp ha voluto come padre nel film Pirati dei Caraibi - Ai confini del mondo e l’amico Tom Waits ha raccontato in un poema: “Keith Richards può andare più veloce di un fax / La sua urina è blu / Mani da spaccalegna / Braccia da marinaio / Schiena da soldato / Cervello da detective / Spalle da boxer / Voce da ragazzo del coro”. "Con Tom abbiamo condiviso molte cose", mormora Richards, e fa la lista di quelli che con lui hanno condiviso l’incubo della dipendenza – Gram Parsons, John Phillips dei Mamas & the Papas, John Lennon. "Brian Jones no, lui ne era schiavo quando ancora non mi facevo. E io, che gli avevo soffiato Anita Pallenberg, non ero la persona giusta per dargli una mano".

 
"Molte persone sono convinte che sia un album geniale, per me è un miscuglio di spazzatura". Così Keith Richards liquida il capolavoro dei Beatles in un'intervista rilasciata alla rivista Esquire criticando la svolta psichedelica di "Sgt. Pepper's and Lonely Hearts Club Band". Il leggendario chitarrista dei Rolling Stones rincara la dose definendo i Fab Four "poco originali"

Ha voglia di ricordare le scorribande romane degli anni Sessanta con la Pallenberg, che girava Barbarella a Cinecittà, la Campo de' Fiori di Gabriella Ferri, che per Anita era come una sorella e il pittore Mario Schifano, "con cui lei aveva avuto un flirt in piena Dolce Vita. Anita parlava cinque lingue e aveva accesso al jet set, conosceva anche Fellini, frequentava il giro del Living Theatre allora di stanza nella capitale". A Roma la ragazza aveva contratto quelle cattive abitudini ben prima che Keith iniziasse il suo match con l’eroina, così come Donyale Luna, indimenticata top model di colore originaria di Detroit che Richards e Pallenberg frequentarono assiduamente in quel 1967 (sarebbe morta di overdose nel 1979). Era il periodo in cui se una ragazza entrava nel clan degli Stones saltava fatalmente da un letto all’altro (Marianne Faithfull, girlfriend di Jagger, ancora ricorda con un certo rimpianto l’unica notte d’amore col chitarrista). Storie in parte narrate in Life, una biografia unica nel suo genere, senza censure, come dovrebbero essere i libri di chi sceglie di raccontarsi. "È stata La Bibbia a riscaraventarmi tra le braccia del blues", spiega. "Questa volta me la sono goduta in studio, non succedeva dal 1991 – prima di Cristo?". Si spancia dalle risate, orientato, arguto, perfettamente a suo agio nel ruolo del sopravvissuto. "Una riunione tra amici: Aaron Neville, Norah Jones, Sarah Dash. Ma poi quando uno fa un disco solista va incontro a mille problemi, si capisce…".


Di che genere? Uno col suo potere ha carta bianca sempre e comunque.
"E invece no. Il primo problema è stato: quando lo facciamo uscire? C’è sempre il tiranno con cui fare i conti, i Rolling Stones, non bisogna mai contrastare gli interessi della band. Avrei voluto pubblicarlo alla fine dell’anno scorso e Mick (Jagger): 'Oh no, siamo ancora in tour, aspetta cazzo!'. Così ho trovato un buco a settembre".

Vuol dire che gli Stones torneranno presto in studio per un nuovo album?
"Con ogni probabilità sì, alla fine dell’anno e nel 2016. E io intanto approfitto della pigrizia degli altri (risata birichina, ndr). Ormai ognuno di noi ha i suoi ritmi, da anni non abbiamo più date fisse da rispettare se non quelle dei concerti. Niente più obblighi contrattuali per carità, né come solista né come chitarrista degli Stones".

Incredibile che il blues sia ancora un punto di riferimento, che eserciti su di lei la stessa suggestione degli anni in cui divideva i primi entusiasmi con Jagger, Brian Jones e Charlie Watts, più di cinquant’anni fa.
"È l’amore della mia vita, più attraente del sesso, delle droghe, delle donne. È la lingua che parlo meglio e quella in cui meglio mi esprimo. Tutti i suoni meravigliosi, degli anni Venti, Trenta e Quaranta – big band comprese – proviene dal blues. È il centro della musica e se c’è qualcosa di buono che l’America ha dato al mondo, l’unica per cui non possiamo biasimarla, è il blues e la popular music in generale. Fa parte della mia struttura, è l’ossatura della mia anima – non il midollo, quello l’ho bruciato in altri modi, come sa (risata diabolica, ndr)".

Le ha salvato la vita. Non riusciamo proprio a immaginarla in ufficio dalle nove alle cinque e, a questo punto, in pensione.
"No guardi, io per quella roba lì non sono mai stato tagliato. Non avevo prospettive, ero completamente perso quando pensavo al futuro. Fino al momento in cui cominciai ad ascoltare Muddy Waters e tutti gli altri: voglio creare quei magici accordi, voglio combinarli e ricombinarli fino all’esaurimento – e non c’è stata fine. Sono stato fortunato a imbattermi con la musica giusta, quella che fa scattare la scintilla e, certamente nel mio caso, ti cambia la vita. Ma poi ho anche avuto culo, dove sarei andato senza Mick, il migliore frontman dell’ultimo secolo?".

Cosa ascoltava in casa da ragazzino?
"I dischi di Doris, mia madre. Billie Holiday, Ella Fitzgerald, Louis Armstrong. Allora non sapevo neanche fossero neri, non faceva differenza per me. Il ritmo sincopato è il mio ritmo naturale, io sono il 'roll' del rock (ride a crepapelle, ndr)".

Si è mai chiesto, da adulto, come mai quella musica l’avesse sedotto in maniera così prepotente e così intima?
"Ci ho provato. Ci sono ragioni profonde che sfuggono anche a me. Sarà tutto merito di Doris, un merito che non le ho mai riconosciuto, poveretta. Mamma mia! (esclama in italiano; Richards chiama genitori e nonni col nome di battesimo, ndr). Ma è vero che ho avuto un rapporto, come dice lei, intimo, con la chitarra, anche con le sue forme, così sinuosa com’è potevo dormirci e lo facevo. Con il sesso ho preso confidenza molto tardi, con le donne ancora più tardi e fondamentalmente mi considero monogamo. A modo mio lo ero anche con le groupie, non è mai stato sesso e basta".

Già, lo racconta anche nel suo libro, non ha mai fatto il primo passo. Era il classico figlio unico viziato?
"I figli unici crescono più in fretta perché vivono costantemente a contatto con gli adulti, ascoltano i loro problemi, non hanno fratelli con cui cazzeggiare per casa. Certo, ero il cocco di mamma. Se bussavano alla porta per venderci qualcosa io diligentemente rispondevo: mamma ha detto che non abbiamo bisogno di niente, arrivederci. Con mio padre non ci siamo visti per anni dopo il divorzio, ma alla fine siamo stati molto vicini. Fu un pezzo dopo, durante il tour americano di Tattoo You, nel 1981".

Non sarà mica vero che ha sniffato le ceneri della cremazione? Fu davvero "Ashes to ashes, father to son", cenere alla cenere, di padre in figlio, come scrive in Life?
"Ne ho sniffato solo un residuo che era caduto sul tavolo quando, dopo sei anni, aprii l’urna per spargerle sotto la quercia, come lui avrebbe voluto".

Bob Dylan dice sempre ai giovani artisti, "se ti allontani dal blues sei fottuto". Qual è il motivo per cui resta ancora il grande riferimento transgenerazionale, che si tratti di Kurt Cobain o Jack White?
"Quel che dice Bob in materia di musica è legge. Grazie a Dio c’è stato anche un momento in cui il blues era tremendamente di moda, tra la fine degli anni Cinquanta e i primi anni Sessanta, quando impazzivamo per John Lee Hooker, Muddy Waters, B.B. King e Buddy Guy. In altri periodi il blues non è stato così in primo piano, ma è sempre rimasto strettamente connesso alla popular music, proprio per le ragioni che lo hanno generato: la sofferenza, la nostalgia, la sopraffazione, la necessità di creare un linguaggio che alleviasse la pena e la fatica e fosse incomprensibile agli schiavisti. E non c’è solo Africa dentro, nei blues risuona la musica tzigana e il suono della balalaika e misteriosamente anche qualcosa che mi è capitato di ascoltare in Cina. È impossibile classificarlo, catalogarlo, pontificare come in Inghilterra fecero certi critici stolti che violentemente erigevano mura intorno alla purezza del jazz o del blues – due forme tutt’altro che pure, tanto che anche la musica pop europea ha strette connessioni col blues".


Nel disco c’è anche la cover di Goodnight Irene di Leadbelly, un leggendario menestrello, cercaguai come lei. È un brano che le ha riportato alla mente ricordi e sensazioni particolari?
"Volevo incidere una classica canzone folk americana. Se ho scelto questa è perché Tom Waits, mio buon amico, mi ha mandato un libro su Leadbelly (A Life in Picture, Ed. Steidl, 2007; Tom Waits aveva ripreso Goodnight Irene l’anno prima nell’album Orphans: Brawlers, Bawlers & Bastards). Mi arrivò insieme a una dodici corde che avevo appena acquistato. L’associazione tra le due cose fu immediata: devo incidere Goodnight Irene. È legata alla mia infanzia, Leadbelly la registrò nel 1933, in Inghilterra arrivò sull’onda del blues revival. Solo più tardi avrei capito che in quelle cose che chiamavamo americane di America non c’era niente. Il paese è un miscuglio di razze. Questo e solo questo mi affascina degli Stati Uniti: al contrario dell’Europa, ne riconosci l’identità attraverso la musica più che attraverso la letteratura o la pittura. È qualcosa che sfugge ai leader, che il potere non può controllare, una delle pochissime. Nessun dittatore può imbrigliarla. È zona franca, l’unica che ci resta".

Leadbelly ebbe una vita molto travagliata. Non diversa dalla sua, considerando che per anni lei ha dormito con la rivoltella sotto il cuscino…
"Ma non l’ho usata (ride da pazzi, ndr). Leadbelly aveva il coltello facile. E magari il bianco che aggredì se lo meritava anche, chissà… Ma immagini quale potere doveva avere la musica di quel 'motherfucker' per convincere il direttore del carcere a condonargli parte della pena".

Come reagì la prima volta che andò in tour con gli Stones nel Sud degli Usa e si rese conto che i suoi idoli subivano ancora quell’umiliante segregazione? Anche voi ne foste in qualche modo vittima: vi chiamavano 'frocetti' laggiù, solo perché eravate capelloni.
"Ricordo in particolare una serie di concerti in South Carolina, tra il ’64 e il ’65, mi pare ci fossero con noi Chuck Berry e Bo Diddley. Ci spostavamo in bus tutti insieme, bianchi, neri, chi se ne fregava? Ci fermammo in un punto di ristoro e stavo per entrare con i fratelli nel wc quando uno di quei fottuti mi fermò e mi indicò la scritta sulla porta, 'colored only' ('ingresso riservato ai neri'). Bastardi, gridai. E pisciai tra i cespugli. La schiavitù era ancora lì dietro l’angolo".

C’è un blues col quale ha identificato la sua follia di rocker?
"Credo che Still a Fool (“Ancora pazzo”) di Muddy Waters sia la canzone che rappresenta quel lei intende. È un brano che incise alla fine degli anni Quaranta e fu riciclato dentro quella Rollin’ Stone che noi gli scippammo per dare un nome alla band".

Trouble, 'Tormento', è una canzone del nuovo cd ma anche una parola chiave nella sua storia personale. Ora, guardandosi indietro, i guai che ha avuto – droga, arresti, processi – sono stati una spinta o un freno alla creatività?
"L’origine di tutti i miei problemi è stata la droga. Ha fatto bene, ha fatto male alla musica? Non lo so. Di certo posso assicurarle di non aver scritto le mie cose migliori sotto l’effetto dell’eroina, men che meno Satisfaction – cinquant’anni fa. Perché lo facevo? Volevo sperimentare, ho usato il mio corpo, il mio cervello, come un laboratorio. Ho voluto essere Dr. Jekyll e Mr. Hyde, me ne fregavo delle implicazioni sociali. Ci sono sempre stati drogati nella storia e nella storia delle arti, gente che ha provato, è andata avanti, ci ha lasciato le penne, ci ha dato un taglio. Ma poi ho scoperto che il vero test lo fai su te stesso quando sei lucido".

Altri non ci sono arrivati.
"La parola moderazione può sembrare un paradosso pronunciata da me. Ma se cerchi lo sballo sempre più grande rischi grosso, soprattutto dopo i periodi di disintossicazione è fatale assumere dosi massicce. Fu il motivo della mia rottura con Anita, avevamo deciso di smettere invece scoprii che si faceva più di prima".

Le è mai mancata la normalità in questi decenni travolgenti? O ha dovuto sacrificare qualcosa per arrivare al punto in cui è, un mito e un’icona per più di una generazione?
"Non saprei. Cosa ho sacrificato? Una interminabile, noiosa vita familiare? (risata furbesca, ndr). Piuttosto qualche volta mi sono sentito un martire; la gente, il pubblico, mi ha dato la libertà di essere Keith Richards, nel bene e nel male. Nei momenti più duri, mi è capitato di pensare: 'Hey, ma fin dove volete che arrivi?'. È come se mi avessero dato il lasciapassare per una vita parallela – va’ avanti e dacci quel che ci piace. Non riesco a immaginare cosa sarei oggi se non fossi un Rolling Stone. Non penso di essere un genio né di essere il Re Mida del rock. Ci ho lavorato, e anche sodo, ma ho anche lavorato con gente brava. E dopotutto nonostante gli alti e i bassi siamo ancora amici".

Nella sua biografia ribadisce più volte che non cercava né fama né denaro quando formò i Rolling Stones ma che era solo ingordo di musica. Dev’essere stato fastidioso affrontare l’isteria dei primi anni, il glamour e anche la "detestabile attrazione" – parole sue – che Mick aveva/ha per il jet set.
"Ma lo sa che nei concerti dopo Satisfaction le urla delle ragazzine sovrastavano la musica? Brian Jones suonava il motivetto di Braccio di Ferro e nessuno se ne accorgeva in quella bagarre. Quanto al resto, l’ho sempre vissuta come una distrazione. Era inevitabile che accadesse con uno showman come Mick, così naturalmente esibizionista. Era pronto per gli stadi già quando muovevamo i primi passi al Marquee di Londra. È stata una crescita naturale, non puoi restare insensibile se una figa pazzesca ti lancia le mutandine, non puoi restare indifferente alle lusinghe di un regista come Jean-Luc Godard, non puoi chiudere la porta del camerino a Lee Radziwill (la sorella di Jackie Onassis, ndr) o Truman Capote, non puoi pretendere di esibirti al Circo Massimo – che serata ragazzi! – e snobbare il sindaco di Roma".
 
Keith Richards interpreta la sua "Words of Wonder" (dall'album solista "Main Offender") e una cover di "Get Up Stand Up", il classico reggae di Bob Marley, in una jam session "planetaria" con musicisti di strada e artisti famosi come Keb' Mo', Mermans Mosengo e Sherieta Lewis. Richards aderisce al progetto della Playing For Change Foundation, l'organizzazione no profit che si è data la missione di edificare scuole di musica destinate all'infanzia nei luoghi più disparati del mondo.

Ha qualche rimpianto per non essere stato più prolifico come solista, soprattutto negli anni in cui Mick si era invaghito di Bowie ed era tentato dalla disco music?
"Prolifico è una strana parola per un musicista. Scrivo canzoni a getto continuo – mi vengono anche nel sonno – ma ovviamente la band ha sempre avuto il meglio. Io scrivo e basta, devo farlo. Se ora ho inciso questo disco è perché non mi andava di restarmene con le mani in mano. Lo studio di registrazione è la mia seconda casa. Non dico la prima altrimenti mia moglie si arrabbia. Per dedicarmi a lei e alle figlie ho evitato di avere una postazione domestica. Sa cosa vorrebbe dire avere dei musicisti per casa tutto il tempo? Altro che una canna la mattina! Ma a casa scrivo, scrivo incessantemente, come facevo agli esordi con Mick, quando il nostro primo manager ci chiudeva a chiave in cucina per costringerci a produrre nuove canzoni".

Dopo Life ha avuto il tempo di narrare la sua infanzia in un audiobook, Gus and Me, dedicato a suo nonno, che le fece scoprire la chitarra. Sarebbe mai diventato l’artista che è senza l’incoraggiamento di Gus?
"Senza le sue curiosità e la sua generosità non avrei mai messo le mani su una chitarra. Ne aveva una in casa, appoggiata come un cimelio sul piano verticale. Mi disse: 'Quando sarai alto abbastanza la prenderai da solo'. E così andò, non ha mai preteso di insegnarmi nulla ma mi punzecchiava continuamente. Aveva capito che con me l’autorità non funziona. 'Chi sa suonare uno strumento ha un amico in più nella vita', mi diceva sempre. Era stato un artista in gioventù, la sapeva lunga".

Come reagì Gus quando i Rolling Stones scatenarono quel putiferio?
"Rideva come un pazzo quando gli raccontavo quel che succedeva sotto il palco, di tutte quelle ragazzine che rientravano col fidanzato e poi sgattaiolavano da casa in piena notte per venirci a cercare. La follia cominciò molto presto, in un pub di Hampstead intervenne la polizia perché un gruppo di teenager scatenate si avventarono su Mick. Ci rifugiammo in una macchina. Mentre cercavamo di svignarcela udii il suono di un violino e vidi dal finestrino il nonno che si faceva largo tra quelle invasate suonando e ammiccando. Ci marcava stretto".

Ora anche lei è nonno. È pigro quando non è in tour con gli Stones? Un uomo di casa?
"Sì, finalmente! La famiglia è cresciuta a dismisura, ho cinque nipoti, non mi annoio. E poi ho i miei libri per i momenti di solitudine, sono un lettore vorace, adoro le biblioteche, la nostra memoria. Mi piace Patrick O’Brian ma anche Voltaire. Mi sono avventurato persino nel Mein Kampf, che noia mortale, non sono riuscito a finirlo, oltre a tutto il resto Hitler era anche un pessimo scrittore".

Soffrì davvero così tanto quando a 13 anni la espulsero dal coro?
"Fu come se mi avessero ucciso. Io e i miei amici Spike e Terry eravamo i soprano migliori. Poi la voce cambiò – esplosione ormonale, capisce? – e addio sogni di gloria. A scuola ci fecero perdere l’anno perché avevamo dedicato troppo tempo al coro e poco allo studio. Da quel momento il mio unico obiettivo fu quello di farmi espellere. Ci misi due anni ma ci riuscii. Lì iniziò il mio rifiuto dell’autorità che da adulto si sarebbe tradotto in un costante corpo a corpo con poliziotti e giudici. 'Yes Sir' diventò per me la frase più odiosa da pronunciare. Capisce ora perché sono stato sempre perseguitato dai poliziotti? Erano appostati fuori casa anche quando non c’era ombra di roba in giro".

Magari senza quell’umiliazione sarebbe stato più attratto dal canto che dalla chitarra.
"Non me ne parli, sono ancora incazzato, non c’è nulla che io avrei potuto imparare da quella gentaglia. Era una scuola di merda, tutte le scuole più o meno lo sono. È un bel culo trovare un insegnante come si deve. I miei maestri erano appena tornati dalla guerra, non andavano troppo per il sottile".

Le è mai capitato durante la carriera di provare quella stessa umiliazione?
"Oh, sì. Ci hanno pensato i poliziotti a riaprire la piaga di volta in volta. Ma a quel punto, devo dire, avevo prodotto gli anticorpi. Milioni di persone là fuori pronte a scendere in piazza e gridare 'liberate Keith!'".

E d’altro canto, si è mai sentito insicuro in questo mezzo secolo? Ha mai tremato all’idea che la sua musica potesse perdere il contatto col pubblico? Durante la furia del punk, ad esempio.
"Questo ha incrinato la mia amicizia con Mick: è ridicolo andare a caccia di celebrità, assurdo. Se lo fai t’impantani in mille insicurezze. Al contrario di lui, sono sempre rimasto incollato ai miei principi musicali. Devi essere quel che sei, svecchiare il suono è un’illusione. Questo ha salvato gli Stones, lo spirito di gruppo e restare fedeli a se stessi. Mick s’illudeva di vendere milioni di dischi come solista, ma poi è tornato all’ovile".

Da ragazzi si pensava che il rock & roll fosse musica per giovani ribelli, che tutto si sarebbe esaurito nel giro di una generazione. Pare di no a giudicare dagli Stones, da Dylan, da Paul McCartney. E non è ancora revival.
"Chi lo pensava? Non io. Per me il rock & roll è sempre stato per tutti, fin dall’inizio. Avvertivo qualcosa di profondissimo, di sconvolgente in quel ritmo. Mai pensato che fosse musica usa e getta. Non ho mai trovato un duplicato di quella chiave che apre l’anima".

1 commento:

  1. complimenti per l' articolo.
    saluti da .
    http://feliciasalvati.altervista.org

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