da Repubblica.it di
GIUSEPPE VIDETTI
Incontro con il chitarrista del Rolling
Stones che, a quasi vent'anni dal suo ultimo album solista, pubblica
"Crosseyed Heart". Tra un tiro di sigaretta e l'altro ci ha spiegato
qual è il segreto della sua forza: "Una canna la mattina? Scandalo! Ma
cazzo, sono Keith Richards, cosa si aspettano da me?"
NEW YORK – Con quello
straccio tra i capelli e le rughe profonde, sembra un chitarrista
zingaro o un Cristo sofferente scolpito su un tronco d’ulivo. Poi appena
dopo l’intervento della procace truccatrice – che congeda con un bacio
non proprio casto – gli occhi bistrati, jeans neri e camicia in seta a
piccoli pois tagliati di fresco dalle forbici punk di Hedi Slimane,
Keith Richards è pronto per il pomeriggio da rockstar a Manhattan (non
in una delle solite tane da divo, un boutique hotel sulla Bowery, due
passi dall’ex CBGB’s, tempio del punk), una fuga di due giorni dal
Connecticut, dove vive con la moglie Patti Hansen. Consumato dalla vita
on the road, segnato dalle cattive abitudini, prosciugato dalle infinite
trascuratezze cui solo agli immortali è dato sopravvivere, Keef (per
gli amici) potrebbe avere i suoi 71 anni o i 969 di Matusalemme; nel
rock è la maschera che parla, e la sua è potentissima. Se ne frega degli
slogan, di quello che han scritto su di lui, grande chitarrista
posseduto da mille demoni o Lucifero partorito durante un voodoo a base
di blues. "Ma quale diavolo!", esclama scoppiando in una risata
catarrosa e subito aspirando voluttuosamente dall’ennesima Marlboro come
fosse una riserva d’ossigeno, "l’unica volta che ne ho visto uno aveva
il volto del dentista. Era il mio incubo da bambino, per colpa sua ho
avuto per anni una bocca sgangherata. Ora i denti sono a posto, in
America hanno fatto miracoli dopo che con l’eroina ci ha dato un taglio.
Quale che sia il suo interlocutore, Richards pretende normalità,
confidenza, allegria. Continua a essere una star riluttante dopo 53 anni
da Rolling Stone con oltre duecento milioni di dischi venduti, riff
memorabili che hanno segnato in maniera indelebile la storia del rock (Gimme Shelter e Jumpin’ Jack Flash
sono solo esempi), l’ennesimo trionfale tour mondiale concluso da pochi
giorni, una mostra celebrativa in febbrile preparazione a Londra (Exhibitionism, alla Saatchi Gallery, dal 5 aprile al 4 settembre 2016), un’autobiografia best seller a dir poco rivelatoria – Life (2010) che affettuosamente chiama La Bibbia – un audiobook per bambini, Gus and Me,
disegnato dalla figlia Theodora, in cui narra la storia dell’adorato
nonno materno e della sua prima chitarra, e ora un disco solista (il
terzo) dopo quasi vent’anni, Crosseyed Heart, che esce il 18
settembre. "Tutto è strano come è sempre stato, come deve essere", dice
ridendo di cuore. "Ho fatto un disco, ne faccio di rado. Tre anni fa,
avevo appena finito di scrivere La Bibbia, mi resi conto che
non facevo niente da troppo tempo. Mi sentivo strano – ormai so che
quando la situazione si fa strana cominciano a materializzarsi buone
cose. Scrivere un’autobiografia è vivere due volte, una sensazione
spaventosa, come andare dallo psicanalista suppongo (chi c’è mai
stato?)".
C’è un Keith professionale, composto, paziente, che si sottopone alla
sfilza di domande – registratore acceso. E c’è un Keef divertente,
ironico, buontempone che a microfono spento ha voglia di ricordare,
montare e smontare leggende metropolitane, beffarsi delle frasi a
effetto che i "motherfucker" sparano come scoop: "Una canna la mattina?
Scandalo! Ma cazzo, sono Keith Richards, cosa si aspettano da me? Sgt. Pepper un disco di merda? Blasfemo! Avrò ben il diritto di esprimere un’opinione; fu quello il disco ci costrinse a incidere nel ’67 Their Satanic Majesties Request,
il più brutto degli Stones. Ne parlavo anche con John (Lennon), un
fratello, ne ho riparlato di recente con Paul (McCartney), un amico".
Dalla bocca rugosa espira una nuvola di fumo denso, ritratto perfetto
del drago che Johnny Depp ha voluto come padre nel film Pirati dei Caraibi - Ai confini del mondo
e l’amico Tom Waits ha raccontato in un poema: “Keith Richards può
andare più veloce di un fax / La sua urina è blu / Mani da spaccalegna /
Braccia da marinaio / Schiena da soldato / Cervello da detective /
Spalle da boxer / Voce da ragazzo del coro”. "Con Tom abbiamo condiviso
molte cose", mormora Richards, e fa la lista di quelli che con lui hanno
condiviso l’incubo della dipendenza – Gram Parsons, John Phillips dei
Mamas & the Papas, John Lennon. "Brian Jones no, lui ne era schiavo
quando ancora non mi facevo. E io, che gli avevo soffiato Anita
Pallenberg, non ero la persona giusta per dargli una mano".
Ha voglia di ricordare le scorribande romane degli anni Sessanta con la Pallenberg, che girava Barbarella
a Cinecittà, la Campo de' Fiori di Gabriella Ferri, che per Anita era
come una sorella e il pittore Mario Schifano, "con cui lei aveva avuto
un flirt in piena Dolce Vita. Anita parlava cinque lingue e aveva
accesso al jet set, conosceva anche Fellini, frequentava il giro del
Living Theatre allora di stanza nella capitale". A Roma la ragazza aveva
contratto quelle cattive abitudini ben prima che Keith iniziasse il suo
match con l’eroina, così come Donyale Luna, indimenticata top model di
colore originaria di Detroit che Richards e Pallenberg frequentarono
assiduamente in quel 1967 (sarebbe morta di overdose nel 1979). Era il
periodo in cui se una ragazza entrava nel clan degli Stones saltava
fatalmente da un letto all’altro (Marianne Faithfull, girlfriend di
Jagger, ancora ricorda con un certo rimpianto l’unica notte d’amore col
chitarrista). Storie in parte narrate in Life, una biografia unica nel suo genere, senza censure, come dovrebbero essere i libri di chi sceglie di raccontarsi. "È stata La Bibbia
a riscaraventarmi tra le braccia del blues", spiega. "Questa volta me
la sono goduta in studio, non succedeva dal 1991 – prima di Cristo?". Si
spancia dalle risate, orientato, arguto, perfettamente a suo agio nel
ruolo del sopravvissuto. "Una riunione tra amici: Aaron Neville, Norah
Jones, Sarah Dash. Ma poi quando uno fa un disco solista va incontro a
mille problemi, si capisce…".
Di che genere? Uno col suo potere ha carta bianca sempre e comunque.
"E invece no. Il primo problema è stato: quando lo facciamo uscire? C’è
sempre il tiranno con cui fare i conti, i Rolling Stones, non bisogna
mai contrastare gli interessi della band. Avrei voluto pubblicarlo alla
fine dell’anno scorso e Mick (Jagger): 'Oh no, siamo ancora in tour,
aspetta cazzo!'. Così ho trovato un buco a settembre".
Vuol dire che gli Stones torneranno presto in studio per un nuovo album?
"Con ogni probabilità sì, alla fine dell’anno e nel 2016. E io intanto approfitto della pigrizia degli altri (risata birichina, ndr).
Ormai ognuno di noi ha i suoi ritmi, da anni non abbiamo più date fisse
da rispettare se non quelle dei concerti. Niente più obblighi
contrattuali per carità, né come solista né come chitarrista degli
Stones".
Incredibile che il blues sia ancora un punto di riferimento, che
eserciti su di lei la stessa suggestione degli anni in cui divideva i
primi entusiasmi con Jagger, Brian Jones e Charlie Watts, più di
cinquant’anni fa.
"È l’amore della mia vita, più attraente del sesso, delle droghe, delle
donne. È la lingua che parlo meglio e quella in cui meglio mi esprimo.
Tutti i suoni meravigliosi, degli anni Venti, Trenta e Quaranta – big
band comprese – proviene dal blues. È il centro della musica e se c’è
qualcosa di buono che l’America ha dato al mondo, l’unica per cui non
possiamo biasimarla, è il blues e la popular music in generale. Fa parte
della mia struttura, è l’ossatura della mia anima – non il midollo,
quello l’ho bruciato in altri modi, come sa (risata diabolica, ndr)".
Le ha salvato la vita. Non riusciamo proprio a immaginarla in ufficio dalle nove alle cinque e, a questo punto, in pensione.
"No guardi, io per quella roba lì non sono mai stato tagliato. Non avevo
prospettive, ero completamente perso quando pensavo al futuro. Fino al
momento in cui cominciai ad ascoltare Muddy Waters e tutti gli altri:
voglio creare quei magici accordi, voglio combinarli e ricombinarli fino
all’esaurimento – e non c’è stata fine. Sono stato fortunato a
imbattermi con la musica giusta, quella che fa scattare la scintilla e,
certamente nel mio caso, ti cambia la vita. Ma poi ho anche avuto culo, dove sarei andato senza Mick, il migliore frontman dell’ultimo secolo?".
Cosa ascoltava in casa da ragazzino?
"I dischi di Doris, mia madre. Billie Holiday, Ella Fitzgerald, Louis
Armstrong. Allora non sapevo neanche fossero neri, non faceva differenza
per me. Il ritmo sincopato è il mio ritmo naturale, io sono il 'roll'
del rock (ride a crepapelle,
ndr)".
Si è mai chiesto, da adulto, come mai quella musica l’avesse sedotto in maniera così prepotente e così intima?
"Ci ho provato. Ci sono ragioni profonde che sfuggono anche a me. Sarà
tutto merito di Doris, un merito che non le ho mai riconosciuto,
poveretta. Mamma mia! (esclama in italiano; Richards chiama genitori e
nonni col nome di battesimo,
ndr). Ma è vero che ho avuto un
rapporto, come dice lei, intimo, con la chitarra, anche con le sue
forme, così sinuosa com’è potevo dormirci e lo facevo. Con il sesso ho
preso confidenza molto tardi, con le donne ancora più tardi e
fondamentalmente mi considero monogamo. A modo mio lo ero anche con le
groupie, non è mai stato sesso e basta".
Già, lo racconta anche nel suo libro, non ha mai fatto il primo passo. Era il classico figlio unico viziato?
"I figli unici crescono più in fretta perché vivono costantemente a
contatto con gli adulti, ascoltano i loro problemi, non hanno fratelli
con cui cazzeggiare per casa. Certo, ero il cocco di mamma. Se bussavano
alla porta per venderci qualcosa io diligentemente rispondevo: mamma ha
detto che non abbiamo bisogno di niente, arrivederci. Con mio padre non
ci siamo visti per anni dopo il divorzio, ma alla fine siamo stati
molto vicini. Fu un pezzo dopo, durante il tour americano di
Tattoo You, nel 1981".
Non sarà mica vero che ha sniffato le ceneri della cremazione?
Fu davvero "Ashes to ashes, father to son", cenere alla cenere, di padre
in figlio, come scrive in Life?
"Ne ho sniffato solo un residuo che era caduto sul tavolo quando, dopo
sei anni, aprii l’urna per spargerle sotto la quercia, come lui avrebbe
voluto".
Bob Dylan dice sempre ai giovani artisti, "se ti allontani dal
blues sei fottuto". Qual è il motivo per cui resta ancora il grande
riferimento transgenerazionale, che si tratti di Kurt Cobain o Jack
White?
"Quel che dice Bob in materia di musica è legge. Grazie a Dio c’è stato
anche un momento in cui il blues era tremendamente di moda, tra la fine
degli anni Cinquanta e i primi anni Sessanta, quando impazzivamo per
John Lee Hooker, Muddy Waters, B.B. King e Buddy Guy. In altri periodi
il blues non è stato così in primo piano, ma è sempre rimasto
strettamente connesso alla popular music, proprio per le ragioni che lo
hanno generato: la sofferenza, la nostalgia, la sopraffazione, la
necessità di creare un linguaggio che alleviasse la pena e la fatica e
fosse incomprensibile agli schiavisti. E non c’è solo Africa dentro, nei
blues risuona la musica tzigana e il suono della balalaika e
misteriosamente anche qualcosa che mi è capitato di ascoltare in Cina. È
impossibile classificarlo, catalogarlo, pontificare come in Inghilterra
fecero certi critici stolti che violentemente erigevano mura intorno
alla purezza del jazz o del blues – due forme tutt’altro che pure, tanto
che anche la musica pop europea ha strette connessioni col blues".
Nel disco c’è anche la cover di Goodnight Irene di
Leadbelly, un leggendario menestrello, cercaguai come lei. È un brano
che le ha riportato alla mente ricordi e sensazioni particolari?
"Volevo incidere una classica canzone folk americana. Se ho scelto
questa è perché Tom Waits, mio buon amico, mi ha mandato un libro su
Leadbelly (
A Life in Picture, Ed. Steidl, 2007; Tom Waits aveva ripreso
Goodnight Irene l’anno prima nell’album
Orphans: Brawlers, Bawlers & Bastards). Mi arrivò insieme a una dodici corde che avevo appena acquistato. L’associazione tra le due cose fu immediata: devo incidere
Goodnight Irene.
È legata alla mia infanzia, Leadbelly la registrò nel 1933, in
Inghilterra arrivò sull’onda del blues revival. Solo più tardi avrei
capito che in quelle cose che chiamavamo americane di America non c’era
niente. Il paese è un miscuglio di razze. Questo e solo questo mi
affascina degli Stati Uniti: al contrario dell’Europa, ne riconosci
l’identità attraverso la musica più che attraverso la letteratura o la
pittura. È qualcosa che sfugge ai leader, che il potere non può
controllare, una delle pochissime. Nessun dittatore può imbrigliarla. È
zona franca, l’unica che ci resta".
Leadbelly ebbe una vita molto travagliata. Non diversa dalla
sua, considerando che per anni lei ha dormito con la rivoltella sotto il
cuscino…
"Ma non l’ho usata (ride da pazzi,
ndr). Leadbelly aveva il
coltello facile. E magari il bianco che aggredì se lo meritava anche,
chissà… Ma immagini quale potere doveva avere la musica di quel
'motherfucker' per convincere il direttore del carcere a condonargli
parte della pena".
Come reagì la prima volta che andò in tour con gli Stones nel
Sud degli Usa e si rese conto che i suoi idoli subivano ancora
quell’umiliante segregazione? Anche voi ne foste in qualche modo
vittima: vi chiamavano 'frocetti' laggiù, solo perché eravate capelloni.
"Ricordo in particolare una serie di concerti in South Carolina, tra il
’64 e il ’65, mi pare ci fossero con noi Chuck Berry e Bo Diddley. Ci
spostavamo in bus tutti insieme, bianchi, neri, chi se ne fregava? Ci
fermammo in un punto di ristoro e stavo per entrare con i fratelli nel
wc quando uno di quei fottuti mi fermò e mi indicò la scritta sulla
porta, 'colored only' ('ingresso riservato ai neri'). Bastardi, gridai. E
pisciai tra i cespugli. La schiavitù era ancora lì dietro l’angolo".
C’è un blues col quale ha identificato la sua follia di rocker?
"Credo che
Still a Fool (“Ancora pazzo”) di Muddy Waters sia la
canzone che rappresenta quel lei intende. È un brano che incise alla
fine degli anni Quaranta e fu riciclato dentro quella
Rollin’ Stone che noi gli scippammo per dare un nome alla band".
Trouble, 'Tormento', è una canzone del nuovo cd ma
anche una parola chiave nella sua storia personale. Ora, guardandosi
indietro, i guai che ha avuto – droga, arresti, processi – sono stati
una spinta o un freno alla creatività?
"L’origine di tutti i miei problemi è stata la droga. Ha fatto bene, ha
fatto male alla musica? Non lo so. Di certo posso assicurarle di non
aver scritto le mie cose migliori sotto l’effetto dell’eroina, men che
meno
Satisfaction – cinquant’anni fa. Perché lo facevo? Volevo
sperimentare, ho usato il mio corpo, il mio cervello, come un
laboratorio. Ho voluto essere Dr. Jekyll e Mr. Hyde, me ne fregavo delle
implicazioni sociali. Ci sono sempre stati drogati nella storia e nella
storia delle arti, gente che ha provato, è andata avanti, ci ha
lasciato le penne, ci ha dato un taglio. Ma poi ho scoperto che il vero
test lo fai su te stesso quando sei lucido".
Altri non ci sono arrivati.
"La parola moderazione può sembrare un paradosso pronunciata da me. Ma
se cerchi lo sballo sempre più grande rischi grosso, soprattutto dopo i
periodi di disintossicazione è fatale assumere dosi massicce. Fu il
motivo della mia rottura con Anita, avevamo deciso di smettere invece
scoprii che si faceva più di prima".
Le è mai mancata la normalità in questi decenni travolgenti? O
ha dovuto sacrificare qualcosa per arrivare al punto in cui è, un mito e
un’icona per più di una generazione?
"Non saprei. Cosa ho sacrificato? Una interminabile, noiosa vita familiare? (risata furbesca,
ndr).
Piuttosto qualche volta mi sono sentito un martire; la gente, il
pubblico, mi ha dato la libertà di essere Keith Richards, nel bene e nel
male. Nei momenti più duri, mi è capitato di pensare: 'Hey, ma fin dove
volete che arrivi?'. È come se mi avessero dato il lasciapassare per
una vita parallela – va’ avanti e dacci quel che ci piace. Non riesco a
immaginare cosa sarei oggi se non fossi un Rolling Stone. Non penso di
essere un genio né di essere il Re Mida del rock. Ci ho lavorato, e
anche sodo, ma ho anche lavorato con gente brava. E dopotutto nonostante
gli alti e i bassi siamo ancora amici".
Nella sua biografia ribadisce più volte che non cercava né fama
né denaro quando formò i Rolling Stones ma che era solo ingordo di
musica. Dev’essere stato fastidioso affrontare l’isteria dei primi anni,
il glamour e anche la "detestabile attrazione" – parole sue – che Mick
aveva/ha per il jet set.
"Ma lo sa che nei concerti dopo
Satisfaction le urla delle ragazzine sovrastavano la musica? Brian Jones suonava il motivetto di
Braccio di Ferro
e nessuno se ne accorgeva in quella bagarre. Quanto al resto, l’ho
sempre vissuta come una distrazione. Era inevitabile che accadesse con
uno showman come Mick, così naturalmente esibizionista. Era pronto per
gli stadi già quando muovevamo i primi passi al Marquee di Londra. È
stata una crescita naturale, non puoi restare insensibile se una figa
pazzesca ti lancia le mutandine, non puoi restare indifferente alle
lusinghe di un regista come Jean-Luc Godard, non puoi chiudere la porta
del camerino a Lee Radziwill (la sorella di Jackie Onassis,
ndr) o Truman Capote, non puoi pretendere di esibirti al Circo Massimo – che serata ragazzi! – e snobbare il sindaco di Roma".
Ha qualche rimpianto per non essere stato più prolifico come
solista, soprattutto negli anni in cui Mick si era invaghito di Bowie ed
era tentato dalla disco music?
"Prolifico è una strana parola per un musicista. Scrivo canzoni a getto
continuo – mi vengono anche nel sonno – ma ovviamente la band ha sempre
avuto il meglio. Io scrivo e basta, devo farlo. Se ora ho inciso questo
disco è perché non mi andava di restarmene con le mani in mano. Lo
studio di registrazione è la mia seconda casa. Non dico la prima
altrimenti mia moglie si arrabbia. Per dedicarmi a lei e alle figlie ho
evitato di avere una postazione domestica. Sa cosa vorrebbe dire avere
dei musicisti per casa tutto il tempo? Altro che una canna la mattina!
Ma a casa scrivo, scrivo incessantemente, come facevo agli esordi con
Mick, quando il nostro primo manager ci chiudeva a chiave in cucina per
costringerci a produrre nuove canzoni".
Dopo Life ha avuto il tempo di narrare la sua infanzia in un audiobook, Gus and Me, dedicato a suo nonno, che le fece scoprire la chitarra. Sarebbe mai diventato l’artista che è senza l’incoraggiamento di Gus?
"Senza le sue curiosità e la sua generosità non avrei mai messo le mani
su una chitarra. Ne aveva una in casa, appoggiata come un cimelio sul
piano verticale. Mi disse: 'Quando sarai alto abbastanza la prenderai da
solo'. E così andò, non ha mai preteso di insegnarmi nulla ma mi
punzecchiava continuamente. Aveva capito che con me l’autorità non
funziona. 'Chi sa suonare uno strumento ha un amico in più nella vita',
mi diceva sempre. Era stato un artista in gioventù, la sapeva lunga".
Come reagì Gus quando i Rolling Stones scatenarono quel putiferio?
"Rideva come un pazzo quando gli raccontavo quel che succedeva sotto il
palco, di tutte quelle ragazzine che rientravano col fidanzato e poi
sgattaiolavano da casa in piena notte per venirci a cercare. La follia
cominciò molto presto, in un pub di Hampstead intervenne la polizia
perché un gruppo di teenager scatenate si avventarono su Mick. Ci
rifugiammo in una macchina. Mentre cercavamo di svignarcela udii il
suono di un violino e vidi dal finestrino il nonno che si faceva largo
tra quelle invasate suonando e ammiccando. Ci marcava stretto".
Ora anche lei è nonno. È pigro quando non è in tour con gli Stones? Un uomo di casa?
"Sì, finalmente! La famiglia è cresciuta a dismisura, ho cinque nipoti,
non mi annoio. E poi ho i miei libri per i momenti di solitudine, sono
un lettore vorace, adoro le biblioteche, la nostra memoria. Mi piace
Patrick O’Brian ma anche Voltaire. Mi sono avventurato persino nel Mein Kampf, che noia mortale, non sono riuscito a finirlo, oltre a tutto il resto Hitler era anche un pessimo scrittore".
Soffrì davvero così tanto quando a 13 anni la espulsero dal coro?
"Fu come se mi avessero ucciso. Io e i miei amici Spike e Terry eravamo i
soprano migliori. Poi la voce cambiò – esplosione ormonale, capisce? – e
addio sogni di gloria. A scuola ci fecero perdere l’anno perché avevamo
dedicato troppo tempo al coro e poco allo studio. Da quel momento il
mio unico obiettivo fu quello di farmi espellere. Ci misi due anni ma ci
riuscii. Lì iniziò il mio rifiuto dell’autorità che da adulto si
sarebbe tradotto in un costante corpo a corpo con poliziotti e giudici.
'Yes Sir' diventò per me la frase più odiosa da pronunciare. Capisce ora
perché sono stato sempre perseguitato dai poliziotti? Erano appostati
fuori casa anche quando non c’era ombra di roba in giro".
Magari senza quell’umiliazione sarebbe stato più attratto dal canto che dalla chitarra.
"Non me ne parli, sono ancora incazzato, non c’è nulla che io avrei
potuto imparare da quella gentaglia. Era una scuola di merda, tutte le
scuole più o meno lo sono. È un bel culo trovare un insegnante come si
deve. I miei maestri erano appena tornati dalla guerra, non andavano
troppo per il sottile".
Le è mai capitato durante la carriera di provare quella stessa umiliazione?
"Oh, sì. Ci hanno pensato i poliziotti a riaprire la piaga di volta in
volta. Ma a quel punto, devo dire, avevo prodotto gli anticorpi. Milioni
di persone là fuori pronte a scendere in piazza e gridare 'liberate
Keith!'".
E d’altro canto, si è mai sentito insicuro in questo mezzo
secolo? Ha mai tremato all’idea che la sua musica potesse perdere il
contatto col pubblico? Durante la furia del punk, ad esempio.
"Questo ha incrinato la mia amicizia con Mick: è ridicolo andare a
caccia di celebrità, assurdo. Se lo fai t’impantani in mille
insicurezze. Al contrario di lui, sono sempre rimasto incollato ai miei
principi musicali. Devi essere quel che sei, svecchiare il suono è
un’illusione. Questo ha salvato gli Stones, lo spirito di gruppo e
restare fedeli a se stessi. Mick s’illudeva di vendere milioni di dischi
come solista, ma poi è tornato all’ovile".
Da ragazzi si pensava che il rock & roll fosse musica per
giovani ribelli, che tutto si sarebbe esaurito nel giro di una
generazione. Pare di no a giudicare dagli Stones, da Dylan, da Paul
McCartney. E non è ancora revival.
"Chi lo pensava? Non io. Per me il rock & roll è sempre stato per
tutti, fin dall’inizio. Avvertivo qualcosa di profondissimo, di
sconvolgente in quel ritmo. Mai pensato che fosse musica usa e getta.
Non ho mai trovato un duplicato di quella chiave che apre l’anima".