Il ragazzo che il 24 aprile 1962 varca la soglia dello studio A della Columbia Records a Manhattan si chiama Robert Zimmerman, sta per compiere 21 anni e aspira a fare il musicista di professione. È arrivato a New York quindici mesi prima con un bagaglio leggero e un gran desiderio: avvicinare l'idolo Woody Guthrie, il folksinger che negli anni '30 ha cantato meglio d'ogni altro le micidiali dust bowl che spazzavano Texas e Oklahoma provocando un'ondata epocale d'immigrazione verso la California. Lo trova ricoverato in un ospedale del New Jersey e perciò si fa un'ora e mezzo d'autobus, gli porta le sigarette, diventa suo amico. Dicono che vada in giro con una sua foto autografata accompagnata dalla scritta "Non sono ancora morto", che vuol dire: amico, non c'è bisogno di un nuovo Woody Guthrie, quello vecchio non è ancora crepato. Vero è che il primo disco di Zimmerman, che ha chiamato col nome d'arte "Bob Dylan", è derivativo, e parecchio. È uscito in marzo e ha venduto poche migliaia di copie. Dylan ci ha messo dentro due sole canzoni autografe: un resoconto del suo arrivo a New York nel gennaio 1961 e l'omaggio al maestro "Song to Woody", parole sagge e poetiche su una musica già utilizzata da Guthrie in "1913 massacre". Amore e furto, sin da allora.
Bob Dylan non è ancora Bob Dylan, per così dire. Però sta scrivendo: voce, chitarra acustica, a volte armonica a bocca. I progressi sono prodigiosi. S'è accasato presso la comunità artistica del Greenwich Village. Lo si vede al cinema dove proiettano "La strada" di Fellini, ospite sul divano di qualche anima buona a leggere Faulkner, davanti alle abitazioni che furono di Walt Whitman e di Edgar Allan Poe. Al critico Robert Shelton dice di sentirsi un po' come il vagabondo di Charlie Chaplin. Studia la "Anthology of folk music" come se fosse la Bibbia, si fa un sacco d'amici, bazzica caffetterie, bar e club del Village. Chi lo vede esibirsi è rapito oppure schifato. È giovane e inesperto rispetto ai folksinger della scena. Ha una voce nasale, sgraziata. Non ha il rispetto dovuto ai testi sacri del folk, quelli intoccabili, quelli che bisogna cantare in un certo modo. Dylan se ne frega e dal folk e pure dal blues prende quel che gli serve. "Facevo tutto di corsa", scriverà nell'autobiografia. "Pensavo velocemente, mangiavo velocemente, parlavo velocemente, camminavo velocemente". Scrive velocemente, e tanto, e pezzi fuori dall'ordinario. Uno s'intitola "Blowin' in the wind" e ha dentro una saggezza inusuale per un ragazzo di 21 anni, e pure la semplicità e la forza comunicativa dei classici. Sono parole scolpite nella pietra, facili da amare, un inno per generazioni di persone che si fanno le medesime domande sulla vita e la morte, la pace e la guerra, la schiavitù e la libertà, sapendo che "la risposta soffia nel vento". Chi la sente capisce subito che Bob Dylan ha qualcosa, non è un imitatore. E lui si supera, subito. Va in giro con un foglio con scritto il testo di una canzone interminabile chiamata "A hard rain's a-gonna fall", strofe su strofe strane e visionarie che raccontano lo stato d'animo d'un paese che sta attraversando la crisi dei missili di Cuba, e molto altro. Recidivo, una porzione della musica l'ha presa da un'antica ballata folk chiamata "Lord Randall", ma il testo e il modo in cui lo porge sono puro Dylan. Quando il poeta beat Allen Ginsberg l'ascolta, scoppia a piangere. "Il testimone" dice "è passata a una nuova generazione".
Le session del secondo album, momentaneamente intitolato "Bob Dylan's blues", continuano a singhiozzo per un altro anno. Si registra in aprile, poi in luglio, quindi in autunno e inverno, e poi ancora nell'aprile del 1963. Dylan arricchisce via via il suo repertorio sfidando lo scetticismo di chi pensa che lui, ragazzetto del Midwest senza passato, sia un capriccio di John Hammond, che l'ha fortissimamente voluto nel catalogo dell'etichetta Columbia. Dylan prende in contropiede il produttore Tom Wilson, che pensa che il folk sia "roba da idioti" e che si trova di fronte un musicista sì approssimativo, ma un autore di testi stupefacenti. L'"idiota folk" prende la melodia della ballata medievale "Nottamun town" e ci scrive sopra un testo caustico e avvelenato contro i manipolatori del complesso militare-industriale (copyright Dwight Eisenhower) che usano la guerra per far quattrini. Ed è un altro capolavoro dai toni apocalittici: "Masters of war". Ma in fondo lui, Dylan, non è pacifista. Però transita dal mondo del folk impegnato e lo vive da protagonista per alcune stagioni. Qualcuno dirà che lo usa come ascensore verso il successo, lui scriverà col senno di poi che in quel periodo cavalca il cambiamento. Scrive canzoni che mischiano cronaca e denuncia come "Oxford town". Racconta la vicenda di James Meredith, il primo uomo di colore che nel 1962 osa iscriversi alla University of Mississippi e per farlo viene scortato da 500 U.S. Marshals inviati dal procuratore generale Robert Kennedy. Dylan incide anche un pezzo satirico titolato "Talkin' John Birch paranoid blues" sulla paranoia anti-comunista. Intimorita dalle possibili conseguenze dopo la cancellazione di un'esibizione allo show di Ed Sullivan, la Columbia elimina quella e altre tre canzoni quando le prime copie del 33 giri sono già state stampate. Il brano, unitamente ad altre outtake, sarà incluso nel cofanetto del 1991 "The bootleg series 1-3". Oggi la prima stampa del 33 giri d'epoca è valutata anche 8.000 dollari.
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