mercoledì 4 febbraio 2015

Nella Russia di santi e zar «L’Europa ci ha traditi»

Reportage di Paolo Valentino da "Il corriere della Sera"

Viaggio nel Paese, ancora una volta ferito nel suo orgoglio e scosso da una ventata di nazionalismo patriottico che ha ricompattato il popolo



MOSCA - Ilya Glazunov è considerato il più grande artista russo vivente, il pittore che meglio incarna lo spirito della nuova Russia. C’è una grande fila all’ingresso della galleria interamente dedicata alle sue opere, proprio di fronte al Museo Pushkin. Quasi tutti i visitatori si dirigono verso la sala centrale, quella dove campeggiano a tutta parete due immensi oli su tela. Nel primo, dal titolo «Il mercato della nostra democrazia», Glazunov, nello stile del realismo russo che è la sua cifra, offre un’iconografia inquietante della Russia degli anni Novanta: gli oligarchi e le prostitute, la povertà e l’invasione culturale americana, Eltsin e Clinton, la Nato e i bombardieri, i bimbi abbandonati e i criminali, la droga e l’alcolismo, la svendita del Paese, i comunisti nostalgici.

Giustapposto a questo, è «La Russia Eterna», una composizione ordinata e popolata da santi e scrittori, zar e leader sovietici, principi guerrieri ed eroi del lavoro socialista, i patriarchi, gli scienziati, i morti in guerra, dominato da un grande crocefisso, con il Cremlino a far da sfondo e le icone di fianco agli Sputnik.

Le tele fiammeggianti di Glazunov rendono bene l’umore di un Paese, ancora una volta ferito nel suo orgoglio e scosso da una ventata di nazionalismo patriottico che, come altre volte nella sua storia, ha ricompattato il popolo intorno allo zar. La crisi in Ucraina, l’annessione della Crimea, la ribellione delle province orientali russofone Donetsk, Lugansk, Karkhiv (o Novorossija come si dice qui) e le sanzioni decise dall’Occidente contro Mosca hanno aperto un conflitto che è prima di tutto identitario. Nel quale si contrappongono percezioni e idee della propria nazione, dei propri interessi, della propria missione nel mondo, formatesi e sedimentate in secoli di Storia.

Non che siano state sempre antitetiche, nonostante l’asimmetria geopolitica tra Occidente e Russia. Sono passati più di tre secoli da quando Pietro il Grande volle forzare lo sguardo del suo impero verso l’Europa. Ma dopo 318 anni di tormenti, passioni brucianti e appuntamenti mancati, l’impressione è che i russi abbiano tanta voglia di chiudere quella finestra, che il fondatore di San Pietroburgo volle aprire con tutte le forze.

E a spiegare tanto risentimento, tanta delusione, il «senso di essere stati traditi dall’Europa come da un’amante» nelle parole di un diplomatico occidentale, non basta lo stato di «mobilitazione permanente», la formidabile macchina di una propaganda che ormai nutre il pensiero unico di un Paese assediato dai nemici occidentali e che fa dire a Gleb Pavlosky, un ex consigliere di Putin: «A confronto, la televisione sovietica era pacifista nella descrizione dell’Occidente».
No, qualcosa di più profondo e antico scuote la corda pazza del nazionalismo e ridà slancio all’isolamento. «Il sentimento prevalente è che l’Occidente ci abbia preso in giro, illusi e truffati», dice Viktor Loshak, giornalista simbolo dell’era della perestrojka, oggi dirigente del gruppo Kommersant. È la stessa analisi di Nikita Mikhalkov: «Ci avete ingannati. Noi stessi abbiamo distrutto l’Unione Sovietica. Gorbaciov ha regalato tutto. Ma gli americani e l’Occidente si sono comportati come se ci avessero sconfitti. Nulla di tutto ciò che avevate promesso ci è stato dato, solo jeans, McDonald’s e merda». Il regista premio Oscar aggiunge: «Però forse dobbiamo ringraziarvi: perché stiamo assistendo alla rinascita dell’autocoscienza nazionale, fondata sulla convinzione che solo noi possiamo fare qualcosa per noi stessi».
Il vulnus comincia quindi da lontano, da quelli che Fyodor Lukyanov definisce il «senso dello status perduto di grande potenza, la fine del rispetto verso la Russia come Paese, il complesso d’inferiorità che ne deriva». La vicenda ucraina ha così fatto esplodere una frustrazione latente, «complice l’incapacità o il rifiuto dell’Occidente di capire il significato esistenziale che l’Ucraina ha per i russi». «Ognuno di noi — spiega Sergei Markov, politologo e deputato alla Duma per Russia Unita — pensa all’Ucraina come a una parte di se stesso e vede quello che sta succedendo come una guerra civile interna al mondo russo». Quanto alla Crimea, è il parere di Mikhalkov, «non è come le Isole Kurili, cioè bottino di guerra. La Crimea è russa e doveva tornare a casa. Se non l’avessimo fatto, il Mar Nero sarebbe diventato rosso di sangue». C’è bisogno di aggiungerlo? «La Crimea non sarà mai restituita».
Delle pulsioni patriottiche, Vladimir Putin è l’interprete e l’argine allo stesso tempo. I pifferai del nazionalismo più acceso, dal nazional-bolscevico Aleksandr Dugin all’affascinante Eduard Limonov, non sono più ai margini della conversazione nazionale, ma sono diventati mainstream. «Putin li sta usando, ma li tiene anche a bada. E l’Occidente deve stare attento e ricordarsi che le sanzioni forse indurranno il caos economico e sociale, ma da noi il caos non ha mai prodotto democrazia, solo fascismo», dice Loshak. Sergei Markov è ancora più netto: «Voi europei dovete dire grazie a Putin, solo la sua volontà di ferro trattiene l’ondata dell’ira nazionalista».
Da ogni conversazione, sia l’interlocutore allineato o critico verso il Cremlino, un fatto emerge costante: non sarà l’embargo a far cambiare politica allo zar in Ucraina, né a rivoltare il suo popolo esasperato contro di lui. «Putin dice che questa è una battaglia per la nostra identità culturale e la nostra indipendenza, per questo i russi lo appoggeranno anche nelle difficoltà», spiega Mikhalkov. E aggiunge: «L’Occidente può provare a umiliare la Russia, ma non ci metteremo mai in ginocchio. Possiamo parlare da pari a pari, ma non saremo mai i vostri fratelli minori». E ricorda una frase dello scrittore Vassili Shukshin: «Sono tempi difficili: bisogna fare a meno di ciò di cui i nostri antenati non avevano la più pallida idea».
Nello studio di Mikhalkov, tra premi e busti degli zar, campeggia una foto di Vladimir Vladimirovich. È un Putin insolito, corrucciato, con alcune banconote in mano, intento a saldare il conto di un ristorante. «Bisogna pagare per tutto, Nikita», dice la dedica autografa. Mai come in queste settimane, il presidente russo deve aver ripensato a quella frase.