Viaggio nel Paese, ancora una volta ferito nel suo orgoglio e scosso da una ventata di nazionalismo patriottico che ha ricompattato il popolo
MOSCA - Ilya Glazunov è considerato il più grande artista russo vivente, il pittore che meglio incarna lo spirito della nuova Russia. C’è una grande fila all’ingresso della galleria interamente dedicata alle sue opere, proprio di fronte al Museo Pushkin. Quasi tutti i visitatori si dirigono verso la sala centrale, quella dove campeggiano a tutta parete due immensi oli su tela. Nel primo, dal titolo «Il mercato della nostra democrazia», Glazunov, nello stile del realismo russo che è la sua cifra, offre un’iconografia inquietante della Russia degli anni Novanta: gli oligarchi e le prostitute, la povertà e l’invasione culturale americana, Eltsin e Clinton, la Nato e i bombardieri, i bimbi abbandonati e i criminali, la droga e l’alcolismo, la svendita del Paese, i comunisti nostalgici.
Giustapposto a questo, è «La Russia Eterna», una composizione ordinata e popolata da santi e scrittori, zar e leader sovietici, principi guerrieri ed eroi del lavoro socialista, i patriarchi, gli scienziati, i morti in guerra, dominato da un grande crocefisso, con il Cremlino a far da sfondo e le icone di fianco agli Sputnik.
Le tele fiammeggianti di Glazunov rendono bene l’umore di un Paese, ancora una volta ferito nel suo orgoglio e scosso da una ventata di nazionalismo patriottico che, come altre volte nella sua storia, ha ricompattato il popolo intorno allo zar. La crisi in Ucraina, l’annessione della Crimea, la ribellione delle province orientali russofone Donetsk, Lugansk, Karkhiv (o Novorossija come si dice qui) e le sanzioni decise dall’Occidente contro Mosca hanno aperto un conflitto che è prima di tutto identitario. Nel quale si contrappongono percezioni e idee della propria nazione, dei propri interessi, della propria missione nel mondo, formatesi e sedimentate in secoli di Storia.
Non che siano state sempre antitetiche, nonostante l’asimmetria geopolitica tra Occidente e Russia. Sono passati più di tre secoli da quando Pietro il Grande volle forzare lo sguardo del suo impero verso l’Europa. Ma dopo 318 anni di tormenti, passioni brucianti e appuntamenti mancati, l’impressione è che i russi abbiano tanta voglia di chiudere quella finestra, che il fondatore di San Pietroburgo volle aprire con tutte le forze.
E a spiegare tanto risentimento, tanta delusione, il «senso di essere stati traditi dall’Europa come da un’amante» nelle parole di un diplomatico occidentale, non basta lo stato di «mobilitazione permanente», la formidabile macchina di una propaganda che ormai nutre il pensiero unico di un Paese assediato dai nemici occidentali e che fa dire a Gleb Pavlosky, un ex consigliere di Putin: «A confronto, la televisione sovietica era pacifista nella descrizione dell’Occidente».
No, qualcosa di più profondo e antico scuote
la corda pazza del nazionalismo e ridà slancio all’isolamento. «Il
sentimento prevalente è che l’Occidente ci abbia preso in giro, illusi e
truffati», dice Viktor Loshak, giornalista simbolo dell’era della
perestrojka, oggi dirigente del gruppo Kommersant.
È la stessa analisi di Nikita Mikhalkov: «Ci avete ingannati. Noi
stessi abbiamo distrutto l’Unione Sovietica. Gorbaciov ha regalato
tutto. Ma gli americani e l’Occidente si sono comportati come se ci
avessero sconfitti. Nulla di tutto ciò che avevate promesso ci è stato
dato, solo jeans, McDonald’s e merda». Il regista premio Oscar aggiunge:
«Però forse dobbiamo ringraziarvi: perché stiamo assistendo alla
rinascita dell’autocoscienza nazionale, fondata sulla convinzione che
solo noi possiamo fare qualcosa per noi stessi».
Il vulnus comincia quindi da lontano,
da quelli che Fyodor Lukyanov definisce il «senso dello status perduto
di grande potenza, la fine del rispetto verso la Russia come Paese, il
complesso d’inferiorità che ne deriva». La vicenda ucraina ha così fatto
esplodere una frustrazione latente, «complice l’incapacità o il rifiuto
dell’Occidente di capire il significato esistenziale che l’Ucraina ha
per i russi». «Ognuno di noi — spiega Sergei Markov, politologo e
deputato alla Duma per Russia Unita — pensa all’Ucraina come a una parte
di se stesso e vede quello che sta succedendo come una guerra civile
interna al mondo russo». Quanto alla Crimea, è il parere di Mikhalkov,
«non è come le Isole Kurili, cioè bottino di guerra. La Crimea è russa e
doveva tornare a casa. Se non l’avessimo fatto, il Mar Nero sarebbe
diventato rosso di sangue». C’è bisogno di aggiungerlo? «La Crimea non
sarà mai restituita».
Delle pulsioni patriottiche,
Vladimir Putin è l’interprete e l’argine allo stesso tempo. I pifferai
del nazionalismo più acceso, dal nazional-bolscevico Aleksandr Dugin
all’affascinante Eduard Limonov, non sono più ai margini della
conversazione nazionale, ma sono diventati mainstream.
«Putin li sta usando, ma li tiene anche a bada. E l’Occidente deve
stare attento e ricordarsi che le sanzioni forse indurranno il caos
economico e sociale, ma da noi il caos non ha mai prodotto democrazia,
solo fascismo», dice Loshak. Sergei Markov è ancora più netto: «Voi
europei dovete dire grazie a Putin, solo la sua volontà di ferro
trattiene l’ondata dell’ira nazionalista».
Da ogni conversazione, sia
l’interlocutore allineato o critico verso il Cremlino, un fatto emerge
costante: non sarà l’embargo a far cambiare politica allo zar in
Ucraina, né a rivoltare il suo popolo esasperato contro di lui. «Putin
dice che questa è una battaglia per la nostra identità culturale e la
nostra indipendenza, per questo i russi lo appoggeranno anche nelle
difficoltà», spiega Mikhalkov. E aggiunge: «L’Occidente può provare a
umiliare la Russia, ma non ci metteremo mai in ginocchio. Possiamo
parlare da pari a pari, ma non saremo mai i vostri fratelli minori». E
ricorda una frase dello scrittore Vassili Shukshin: «Sono tempi
difficili: bisogna fare a meno di ciò di cui i nostri antenati non
avevano la più pallida idea».
Nello studio di Mikhalkov, tra
premi e busti degli zar, campeggia una foto di Vladimir Vladimirovich. È
un Putin insolito, corrucciato, con alcune banconote in mano, intento a
saldare il conto di un ristorante. «Bisogna pagare per tutto, Nikita»,
dice la dedica autografa. Mai come in queste settimane, il presidente
russo deve aver ripensato a quella frase.