venerdì 29 novembre 2013

Sicilia

Mentre tutti i media parlano della decadenza di Silvio Berlusconi e della salute del governo Letta io penso che domani volo in Sicilia, che è cosa molto più interessante e seria, soprattutto per me.  MI piace scendere in Sicilia, anche se solo per due giorni, mi piace poter passare il sabato sera con vecchi amici in Ortigia e ritrovare usi e costumi che pian pianino la mia mente archivia. Li archivia non perché io li rifiuti, anzi li tengo vivi e vegeti, mi ci alleno e con Stefania c’è la regola tassativa di parlare solo in dialetto siciliano, perché tutto potrei accettare ma no il disinnamoramento dalla terra che mi ha dato i natali. Penso che il luogo in cui si nasce sia importante tanto quanto l’educazione dei genitori e gli amici che frequenti. La tua terra ti forgia, ti racconta storie uniche e ti tramanda legende secolari. La mia città è stata la capitale della Magna Grecia, purtroppo oggi vive lo splendore che fu’ di riflesso e cullandosi del titolo di capitale a vita rischia una misera fine. Troppi giovani lasciano, lasciamo la Sicilia e pochissimi romantici tentano la rotta opposta. Di quelli che partono, pochi fanno ritorno e meno ancora lo fanno coscientemente. Io sono legatissimo a Siracusa ma sono sicuro che dopo un mese dal trasferimento soffrirei la mancanza di Milano. Soffro il freddo cane che questo pezzo di Italia mi riserva, la odio profondamente in estate per l’afa burbera e irrispettosa della vita umana ma alla fine comincio a sentirla mia.  Quando non vado per più di un mese a Brera, comincio a pensare che non sarebbe male ripassare alla Pinacoteca e in via Brera, in via Solferino e a Moscova, se non scendo in centro per più di una settimana cominciano a mancarmi la confusione di via Vittorio Emanuele e le guglie del Duomo, le librerie di via Dante e il Sempione, il Castello di notte e Marghera. Insomma comincio a pensarla come la mia città, mentre inizialmente avevo quella tollerabile diffidenza .  Quando sono giù non mi manca, ma so che torno a casa, so che vedrò tante sere C.so Buenos Aires pieno di gente e turisti che fanno shopping all’impazzata, San Siro illuminato, i giardini Montanelli e le mille opportunità culturali e sociali che essa ti offre. E’ vero, Milano sta attraversando una profonda crisi, sociale prima che economica ma leggo nei cittadini della città, che sono di ovunque tranne che di Milano, un senso di appartenenza e una positività che la porterà a risorgere, o almeno in questo declino inesorabile della vecchia Europa ad assurgere il ruolo di ultima roccaforte italiana a cadere.
Intanto mi godrò la mia Sicilia e cercherò di rilassarmi a più non posso. Le ultime volte che sono sceso ho ritrovato sempre qualcosa di diverso e mi duole costatare che spesso le diversità tendono al negativo, stavolta sono positivo e sono sicuro che lo splendore di un’alba ortigiana mi farà apprezzare ancora di più il fascino immortale della mia città.
Hasta Ortigia siempre

Changes




I cambiamenti non ti avvertono, si presentano senza chiamarti, poi scompaiono, ti lasciano per sempre, cosi per gioco. Il periodo in cui avvengono ti mutano profondamente e ti fanno sentire inquieto e senza pace, poi però tutto passa e torna la serenità che hai cercato di riacquistare durante il moto. Le trasformazioni ti cambiano per sempre e sarai un altro. Questo periodo, questi anni, questi mesi mi hanno cambiato dentro, mi hanno cambiato prospettiva di vita e mi hanno indirizzato verso altre mete.
Oggi no, oggi sono sereno e ho ritrovato un equilibrio stabile e necessario. Se dovessi dire cosa mi ha cambiato potrei fare una lista enorme di supposizioni e allo stesso tempo non potrei elencare una certezza. Ma è l’età che ti cambia o siamo semplicemente noi che lo pensiamo? Ho lo stesso spirito di due anni fa ma qualcosa mi dice che due anni fa ero diverso. Lo ero, davvero, lo sento, lo vedo, lo percepisco.
“Changes” è un pezzo di Jack Savoretti , un londinese di padre italiano che canta pensando al Faber e a Battisti, a Londra lo chiamano il “nuovo Bob Dylan”, tanto per non farci mancare qualche cazzata.  Io penso che Jack Savoretti non possa nemmeno aprire i concerti di quel mostro sacro che di nome fa Bob e di cognome Dylan ma credo comunque che Changes è un gran pezzo. Mi piace ascoltarlo soprattutto quando dice “Changes, All of these changes not making it easy to say what I mean”. Ed è vero che tutti questi cambiamenti non mi rendono facile dire quello che voglio, ma in fondo al cuore è ben chiaro cosa ogni uomo vuole e sono sicuro che questa serenità che mi ha fatto visita da pochi giorni mi sta permettendo di capire meglio.
Non penso che voglia partire, penso anzi che un altro viaggio a breve giro mi destabilizzerebbe nuovamente, non penso voglia trasferirmi, e non penso nemmeno che debba cambiare lavoro. Fino a pochi giorni fa pensavo esattamente il contrario. Ecco forse mi sto autodestabilizzando nuovamente.
Sono partito ma per un viaggio nuovo, diverso, stavolta all’interno e non all’esterno, voglio vivermi questo sublime viaggio con me stesso, interiore, forse anche spirituale. Ho capito di doverlo vivere da solo, per non trascinare nelle mie inquietudini le persone a cui tengo maggiormente, non è il loro viaggio, è solo il mio.
Sto bene quando ne parlo con Stefania e quando mi capisce e in questi giorni mi capisce tanto, cerca di capire tutto ciò che le dico e che forse abbiamo bisogno di dirci. Questi due anni sono passati lentamente, con grandi stravolgimenti ma c’è l’abbiamo fatto ugualmente.  Penso che ora siamo indistruttibili, l’ho sempre pensato, ma ora un po’ di più.
Changes

sabato 16 novembre 2013

Estremo Occidente





L'ho appena finito di leggere e devo dire che mi ha stupito, "Estremo Occidente" di Federico Rampini è un chiarificatore saggio sui nuovi rapporti di forza tra le due superpotenze mondiali, Usa e Cina. Rampini è il corrispondente da New York per "La Repubblica" e prima ha fatto lo stesso da Pechino. Rampini è illuminante perché ha vissuto in Usa anni fa, poi ha vissuto il boom asiatico per ritornare in un'America in decadenza. Che gli Usa sono cambiati è facilmente intuibile, basterebbe farsi spiegare da qualche esperto l’andamento di Wall Street per capire cosa sta succedendo. Il saggio però spiega in dettaglio le differenze sia culturali che economiche tra le superpotenze e i motivi di questi cambiamenti di forza. L’enorme debito pubblico, che talaltro condivide con l’Europa non è mai stato un problema essenziale per gli americani, mentre oggi lo diventa per le banche che esigono di riscuotere incredibili prestiti a tassi da usura per evitare il crack finanziario, saggiamente pilotato dai loro manager delinquenti.
Il flusso continuo di denari in prestito da parte delle banche americane ha ridotto il paese in uno stato di crisi senza precedenti, che purtroppo si avvertirà solo tra qualche anno. Le infrastrutture sempre più fatiscenti e non rinnovabili a causa della mancanza di fondi, ospedali pubblici da terzo mondo e sistema previdenziale a livelli da fallimento.
Gli Usa non sono Nyc o LA e nemmeno le spiagge di Miami, sono soprattutto i contadini delle grande pianure del South Dakota e i contribuenti impoveriti del Colorado, gli operai intossicati del Texas  e gli sfollati della Louisiana che aspettano ancora di vedere ricostruite le loro case. Parlare degli Stati Uniti è complesso, poiché è un’enorme territorio che va dalle sfavillanti luci di Las Vegas e Manhattan alle zone senza corrente elettrica.  Una volta si parlava di sogno Americano, oggi pochissimi europei vanno oltreoceano escludendo NYC.
La Cina cresce enormemente di più perché prima di essere una fabbrica di produzione economica è una fabbrica di idee. I migliori giovani matematici al mondo sono coreani e cinesi a dispetto del loro titolo di studio che spesso porta il nome di Università di Harvard o Columbia University. Vanno a studiare in America e si laureano prima dei nostri studenti., vanno loro dice Rampini “perché se è vero che l’America è in declino è un magnifico declino”.
Mi è piaciuto il capitolo in cui lui spiegava che ogni paese in decadenza riesce a mostrare il meglio di sé nell’arte e nell’inventiva. E’ vero, oggi è facile inventarsi un lavoro in quella parte del mondo, poiché il popolo americano ha un grande pregio, quando tutto va a rotoli loro non si arrendono e inventano il nuovo. Questo non ferma e rallenta il declino ma quantomeno lo rende diverso.
Sono due gli esempi che hanno smentito che i cinesi vanno in Silicon Valley solo per lavoro, loro ci vanno per reimportare in patria nuove idee. Il primo grande progetto è la creazione di un nuovo capitalismo zen, ancora alle origini e sicuramente con tante pecche, quella del rispetto dell’ambiente e dello sfruttamento della manodopera in primis. Non per questo però meno ambizioso e convincente. La seconda è quella incredibile di una nuova rete Internet, cioè vogliono avere il loro WWW, un progetto da non credere.
Il tempo ci dirà quanto passerà, di sicuro c’è il fatto che l’Estremo Occidente oggi non parla più californiano ma mandarino.  

martedì 12 novembre 2013

Kerouac


In questo periodo sono molto inquieto e mi capita spesso di riprendere tra le mani Kerouac. “On the road” non più, mi ha incredibilmente stancato, l'ho letto troppe volte, mi ha ispirato per i primi viaggi, mi ha distrutto delle certezze e soprattutto mi ha formato. Sal e Neal mi hanno preparato per tutti i viaggi in macchina, per tutte le riflessioni sulla vita e sulla giustizia nella società. Ma prima di tutto, Kerouac, mi ha trasmesso la voglia infinita di ricerca sul senso della vita e la visione che tutto muta solo se lo vogliamo. In questo periodo sono alla ricerca del coraggio, mi manca il coraggio di cambiare o forse semplicemente non lo voglio veramente,vorrei svoltare ma non riesco, spero il tempo mi aiuti a capire,voglio ripartire verso qualche meta ma non posso, mi stressa essere sempre assimilato nei meccanismi di questo sistema. Voglio resettare tutto e ricominciare, senza cancellare nessuna esperienza ma solo ripartire da me, da noi,Stefania è l'unico punto fisso da cui ripartire. So che non è facile sopportarmi, ho bisogno sempre di nuovi stimoli e non è facile adeguarsi. Non so perché ma sono così, diviso tra le solitarie riflessioni notturne e il bisogno costante di amici e affetto. La mia vita è costantemente incostante come i miei pensieri. Ho bisogno di pace interiore che stavolta nessun libro o film mi stanno donando. Ho bisogno di ripartire verso una destinazione che non so ancora ma che sto ricercando scrupolosamente. Forse la verità è quella che mi ha detto un mio caro amico "sei semplicemente cresciuto, passerà". Non posso e non voglio dedicare l'esistenza a lamentarmi tra un viaggio e l'altro. Passerà.

Ho riletto alcune pagine dei “Sotterranei” e di “Big Sur” e dopo tanti anni non ricordavo quasi niente, specialmente del secondo. Mi ci sono ritrovato in Big Sur, ho rivisto alcuni smarrimenti involontari del mio percorso, ho disatteso la stessa aspettativa che Jack aveva di se stesso. Mi ha impressionato quando Kerouac ha detto Jack Duluoz ha ventisei anni e non fa che viaggiare con l'autostop", mentre eccomi qui quasi quarantenne, tediato e logoro sulla cuccetta di uno scompartimento riservato che corre rombando attraverso Salt Flat". Non è la paura di crescere, quella non esiste, ho voglia di responsabilizzarmi, è la paura di essere cambiato senza saperlo. Devo ripartire, devo rifarlo per ritrovare me stesso, voglio farlo perché ho bisogno di un evento che mi cambi ancora di più. Il prossimo sarà un viaggio diverso, sarà profondamente atteso,il viaggio è solo il mezzo e non la soluzione. Devo ripartire perché voglio ritrovarmi e non è facile da spiegare. Dobbiamo ripartire perché la vita ti cambia e io voglio sfuggire da questa incredibile macchina da guerra in cui la società mi intrappola. Non voglio vivere per lavorare, devo semplicemente ritrovare il lungo respiro della vita. Stanotte lo voglio fare con consapevolezza, forse il coraggio sta avendo la meglio e qualcosa cambierà inesorabilmente o forse vorrei essere semplicemente diverso.
 Ho sempre avuto un rapporto controverso con Kerouac ma non l’ho mai odiato quanto stanotte.
C'e n'è ancora,di strada

martedì 5 novembre 2013

Dylan Time

Era un atto di fede e l’ho compiuto nella maniera migliore. Ieri sera il concerto di Bob Dylan è stato superlativo e lo diventa ancora di più riflettendoci a freddo. Ho sentito dal vivo la voce che mi ha accompagnato per vent’anni verso la notte, nei momenti di solitudine come in quelli felici. Bob Dylan per me è un eroe e ieri la carica che mi  sprigionava quando partiva ogni testo è inspiegabile. L’ho ascoltato in religioso silenzio, perché così va ascoltato il menestrello americano, senza scomposte reazioni e senza inutili sussulti di gioia. Bob Dylan è un preghiera e merita di essere recitata nell’assoluta quiete del momento. Sono irriconoscibili alcuni testi “recitati” dal vivo, anche per chi è cresciuto a pane e Dylan, ha il potere magico di far diventare “Blowin in the wind” un pezzo jazz e “What good am I?” un canzone dance, fa parte del personaggio, o lo si ama così com’è o non lo si può apprezzare. Bob non conosce amore di sorta o vie di mezzo, è semplicemente così. E’ entrato direttamente cantando ed è uscito dopo due ore nella stessa identica maniera, senza nemmeno accennare un saluto o un discorso, il copione non lo prevede. E’ stato semplicemente il Re della scena con la sua tipica postura con gambe aperte e mani in tasca, ha realizzato il suo spettacolo esibendosi a tratti tramite il linguaggio del corpo, ogni parola era accompagnata da un’espressione o da un movimento.
Ho osservato bene il pubblico ed oltre ad un giusto numero di giovani vi erano un grande numero di over 50/60, quelli che Hurricane e Blowin l’hanno vissuta dal vivo, quelli che lo cantavano durante le manifestazioni contro il Vietnam e quelli che lo ascoltavano nei loro on the road. Signori Bob Dylan è stato l’emblema di un’America che era opportunità e che voleva continuamente cambiare. Un’America che non c’è più.
Il Teatro è stato il tocco in più, ha creato la giusta atmosfera, quella intimità che nessun palazzetto può riservarti. Luci soffuse e musica al giusto tono, più che cantare in alcuni pezzi sembrava che stesse recitando.
Mi è piaciuta tantissimo “Desolation Road” reinterpretata in Italia da Fabrizio De Andrè con la sua “Via della Povertà”, che canzone pazzesca.
Ultima piccola parentesi, sentire l’armonica da cinquanta metri mi ha fatto venire i brividi.
Che il Dio del rock ce lo conservi per un lungo tempo.