Recensione di rockol.it 16 marzo 2015
Preparatevi
a incontrare una scrittrice emarginata e un poeta burbero, un manovale che pare
un gigante e un derelitto in cerca d’avventure, un giocatore d’azzardo e un
musicista che trova un contratto e perde l’amore. E poi vite che s’incrociano
per un attimo fugace oppure si mancano per un soffio…
Preparatevi
a incontrare una scrittrice emarginata e un poeta burbero, un manovale che pare
un gigante e un derelitto in cerca d’avventure, un giocatore d’azzardo e un
musicista che trova un contratto e perde l’amore. E poi vite che s’incrociano
per un attimo fugace oppure si mancano per un soffio, come quelle del
protagonista di “Silver eagle” e della sua bella, lui a bordo di un bus che
attraversa l’America e lei che dorme nel letto di casa. La canzone vive nel
mezzo chilometro che li separa e tutto quanto il disco sta in una dimensione in
cui il tempo è sospeso. Non c’è un filo di contemporaneità nell’ottavo album
solista di Mark Knopfler. Non c’è nemmeno il rock per cui è diventato famoso,
se non in una citazione piuttosto ovvia di “Sultans of swing”. Non ci sono
dichiarazioni altisonanti, suoni appariscenti, melodie ammiccanti. Ci sono
undici canzoni (quindici nell’edizione deluxe, diciassette nel box set) figlie
del gusto per il racconto. Ci sono l’abilità nell’evocare storie con la musica
e la capacità di parlare attraverso poche note di chitarra. “Tracker” è un
disco fuori moda e antistorico. E non è niente male.
Dopo avere
pubblicato il doppio “Privateering” del 2012 Mark Knopfler s’è rimesso al
lavoro piuttosto in fretta. Avrebbe registrato “Tracker” ancor prima se non
fosse partito con Bob Dylan per una tournée in giro per il mondo che gli ha
fruttato la composizione di “Silver eagle” e “Lights of Taormina”. Knopfler ha
assemblato suoni e ispirazioni, è andato a caccia di spunti come un
investigatore che segue le tracce di un caso. È venuto fuori un lavoro in cui –
come da molti anni a questa parte, del resto – è songwriter prima ancora che
chitarrista. Anzi, è uno storyteller col gusto di raccontare la vite degli
altri. Come quella della scrittrice inglese Beryl Bainbridge in “Beryl” che
gira attorno a un unico concetto, il fatto che non ebbe mai un Booker Prize
essendo emarginata dall’elite culturale dominante. Si fanno strada anche un
paio di spunti autobiografici. In “Basil” Knopfler dipinge il poeta Basil
Bunting come un uomo indurito e amareggiato. Lo conobbe quando, ancora
adolescente, muoveva i primi passi nell’Evening Chronicle di Newcastle. In
“Laughs and jokes and drinks and smokes” si ritrae giovanissimo alle prime
prese con la musica e l’amore, incosciente e innamorato della vita.
Che siano
reali o immaginarie, autobiografiche o inventate, le canzoni raccontano storie
piccole, frammenti di esistenze, pensieri volatili che si fanno canzone.
Knopfler usa gli strumenti di sempre, quel suo modo di fare musica
elettro-acustica artigianale e raffinata in cui il retaggio folk celtico
s’incrocia efficacemente con la grande tradizione americana. Il tono è spesso
sedato, le note centellinate, ma l’album non è “seduto” come altri lavori del
chitarrista. Il singolo “Beryl” cita spudoratamente il primissimo successo dei
Dire Straits “Sultans of swing” con l’aggiunta di quello che sembra un organo
Vox. Colori celtici vestono “Laughs and jokes and drinks and smokes”, dove sono
innestati su un groove “nero”, quasi jazz. Se l’attacco di “Long cool girl”
potrebbe essere tranquillamente usato come introduzione dal vivo a “Romeo and
Juliet”, “Broken bones” ha il passo, l’aria sorniona e il suono compresso di
J.J. Cale, mentre “Mighty man” evoca “Brothers in arms”. Oltre al co-produttore
e tastierista Guy Fletcher, Knopfler è affiancato da Glenn Worf (basso
elettrico e contrabbasso) e Ian “Ianto” Thomas (batteria), più i musicisti che
contribuiscono a donare al disco la sua aria folk, ovvero John McCusker
(violino e cetra), Mike McGoldrick (whistle, flauto, chitarra tenore) e Phil
Cunningham (fisarmonica), senza contare un paio di interventi di Nigel
Hitchcock (sassofono), Tom Walsh (tromba), Bruce Molsky (banjo, fiddle,
chitarra), Ian Thomas (washboard).
A forza di
ascoltarlo, si ha l’impressione di sentire l’odore dei nastri sui quali
“Tracker” è stato inciso e di vedere i gesti degli uomini che stanno dietro gli
strumenti. Knopfler si prende tutto il tempo di dipanare storie e dipingere
paesaggi sonori, e così le canzoni superano spesso i sei minuti di durata. Il
finale è affidato a “Wherever I go” cantata in duetto con la dolcissima Ruth
Moody delle canadesi Wailin’ Jennys, che altrove offre un tocco femminile ai
cori. Come in quella canzone, dove il protagonista è seduto al bancone di un
bar lontano da casa e dagli affetti, in tutto il disco si respira un’aria di
serena nostalgia appena turbata da un filo di malinconia. “Tracker” è l’album
di uomo di 65 anni, e si sente. Non è dissimile dai dischi registrati in
passato dal chitarrista. Se avete trovato vecchi e noiosi quelli, qua dentro
non c’è nulla che vi farà cambiare idea. Ma se vi piace il modo in cui Knopfler
racconta piccole storie e le cala in scenari sonori suggestivi, troverete in
“Tracker” altre undici belle canzoni e la conferma che è molto più gratificante
spiare le vite degli altri in una canzone che su Facebook.