da "Corriere della Sera" di Marzio G. Mian
Gli uomini, tutti neri, sono chini e muti. Indossano pantaloni blu,
casacche bianche o celesti, usano guanti gialli. Calzano stivaloni di
gomma, in capo quasi tutti hanno calati logori cappellacci di paglia o
berretti da baseball, qualcuno non smette il poco raccomandabile
cappuccio della felpa. Se non fossero tenuti sotto tiro dalle guardie a
cavallo sembrerebbero immigrati arruolati nella raccolta dei pomodori in
Puglia. Dalla strada sterrata, senti solo qualche colpo di tosse
provenire dal profondo del campo o qualche prolungato mugolio o sbuffo
prodotto dallo sforzo dei più corpulenti nel momento d’alzarsi e deporre
le grosse rape nei secchi; a fare attenzione il vento caldo porta a
folate le note d’un soffocato canto lontano, laggiù nel campo – ma forse
sono solo i fantasmi di questa ex piantagione, una delle più infami del
Sud e della Louisiana, coltivata da schiavi provenienti soprattutto
dall’Angola, un nome che divenne una garanzia di maledizione sia per i
neri condotti in catene a raccogliere il cotone sia per i detenuti
tradotti in catene quando Angola, ai primi del Novecento, divenne il più
grande carcere di massima sicurezza degli Stati Uniti, 7.300 ettari, 73
chilometri quadrati, più esteso di Manhattan.
No, non è un film
Un luogo dove la sofferenza imbratta ancora la terra: nel 1951
trentuno detenuti si tagliarono i tendini d’Achille per protestare
contro le brutali condizioni. “Benvenuti nell’Alcatraz del Sud” dice con
orgoglio Gary Young, ex secondino, la nostra guida in questa visita
esclusiva nel carcere più raccontato del cinema americano, da “Dead Man
Wolking” a “Monster’s Ball” al “Miglio Verde” a “Il mago della truffa” a
“Jfk”. Dei 6.300 detenuti 5120 non usciranno mai da qui: moriranno con
un ago in vena nella stanza delle esecuzioni, oppure – condannati al
carcere a vita – se ne andranno quando sarà la loro ora; ma non
varcheranno lo stesso il cancello, perché la cassa d’abete palustre
costruita dai compagni della sezione falegnameria, i quali da quattro
anni hanno smesso di costruire comodini e assemblano solo bare, verrà
deposta nella terra rossa di Angola. “I primi ad abbandonare il
prigioniero sono i compagni della banda, poi la moglie, poi gli amici,
poi i figli. Quando muore la madre non viene più nessuno. Dietro il
feretro solo i compagni di cella e il pastore. è sempre molto commovente
e intenso” dice Young. Chi è uscito con le sue gambe è Glenn Ford, 64
anni. Era nel braccio della morte da 30 anni, proprio come i fratelli
McCollum rinchiusi in Nord Carolina e liberati il 2 settembre scorso
grazie alla prova del Dna. Glenn in aprile è stato riconosciuto
innocente dall’accusa di omicidio e vittima di discriminazione perché
condannato a morte da una giuria di soli bianchi.
La cura di mister Cain
“La giustizia degli uomini non è quella di Dio. Ma la cosa bella”
assicura Young “è che qui con la nostra riabilitazione morale si muore
comunque nella grazia di Dio. Poi ognuno andrà nel posto che gli spetta,
Inferno o Paradiso, dipende, ovvio”. Infatti Angola è, secondo una
recente denuncia dell’Unione americana per le libertà civili, “un centro
d’integralismo cristiano” perché il controverso direttore Burl Cain ha
lasciato mano libera ai predicatori, ha imposto la costruzione di
cappelle in ognuno dei cinque “padiglioni” recintati di Angola e lo
studio della Bibbia, anzi un vero e proprio seminario obbligatorio che
forma pastori e dj per la radio del carcere che spara a palla prediche e
gospel 24 ore su 24 (prima di Cain la radio era segnalata anche da
Rolling Stone magazine
per la sua sofisticata e laicissima playing list, soprattutto per il
rock). Sta di fatto che quello che era il carcere più violento d’America
è diventato, dopo la sacra cura, un esempio di redenzione e convivenza:
“Oggi è lunedì” dice Young “bene, per tutto il fine settimana non c’è
stata nemmeno una zuffa. Da quando è arrivato mister Cain le violenze
sono calate dell’85 per cento”. Nel 1995 hanno registrato 799
aggressioni tra detenuti e 192 attacchi alle guardie, quest’anno solo 53
incidenti gravi tra galeotti e 15 ai danni dei carcerieri. Nelle
carceri della Bible Belt, soprattutto qui in Louisiana – leader mondiale
nei posti letto in galera, 13 volte più dell’Iran (un nero su 14 a New
Orleans è dietro le sbarre) – e per la destra religiosa americana il
potente Burl Cain è intoccabile almeno quanto la pena di morte.
Difatti Burl Cain e la morte s’incontrano, accade quando è l’ora
dell’iniezione: lui è lì puntuale che tiene la mano al condannato. Burl
Cain è l’ultima visione del condannato prima di chiudere gli occhi. E’
stato dopo la prima esecuzione che Burl Cain ha deciso di dedicare la
sua vita a Cristo, di “far rinascere i criminali in Cristo”, in un certo
senso di essere Cristo: “Ho sentito che quell’uomo stava andando
all’Inferno e che avrei potuto evitarlo” ha detto a
Time. Ha
anche confessato che sua moglie intende lasciarlo perché “non vuole
vivere con un killer”. Il suo predecessore, Murray Henderson, è ancora
ad Angola, ma come detenuto, perché ha ammazzato la moglie con cinque
colpi.
Niente rete, ma alligatori
Questa Alcatraz, dove ci sono detenuti in isolamento, “solitary
confinement”, da 30 anni, occupa una penisola che s’allunga nel
Mississippi in uno dei punti dove esso è più largo e veloce, neanche
avesse fretta, dopo aver sfiorato la sinistra Angola, di raggiungere il
Golfo del Messico e annullare così le acque melmose e i brutti ricordi
accumulati lungo gli oltre quattromila chilometri di viaggio,
nell’immenso Oceano blu. Il lato non bagnato dal Grande Fiume non ha
nemmeno la rete: è invece una giungla paludosa e implacabile, infestata
da serpi e alligatori. Questi ultimi pare siano migliaia poiché qui
hanno la certezza di non essere seccati dai cacciatori, tenuti lontano
dal terrore di udire – come narrano i racconti gotici della Louisiana –
le urla terrificanti delle anime di tutti quei detenuti che fino a un
paio di decenni fa sparivano improvvisamente nel nulla, nè ricercati nè
reclamati, dimenticati da tutti, come d’altronde accade ai problemi
risolti. “No signore, da qui non si può fuggire” garantisce Young. “Due
settimane fa ci hanno provato in tre, dopo 15 minuti erano già in cella
di punizione e tra un anno passeranno in isolamento”. C’è stato solo un
caso nel 1956, fuggirono in cinque, un corpo venne pescato dal fiume, un
evaso venne catturato in Texas e disse di aver visto affogare due
compagni di fuga, ma gli uomini dell’allora direttore Maurice Sigler
trovarono le chiare tracce di tre uomini oltre il Mississippi.
I fantasmi della piantagione
Forse la cosa più feroce di questo luogo, la vera condanna, è la sua
immensità, che offre l’illusione d’appartenere ancora al mondo e alla
vita, di condividere l’orizzonte e le nuvole e i temporali con tutti gli
altri uomini liberi, invece chi sta qui viene contato 23 volte al
giorno e viene pagato 4 centesimi l’ora per il lavoro forzato nei campi –
in rapporto molto meno degli schiavi dell’antica piantagione. L’80 per
cento dei reclusi sono qui per delitti atroci e violenti, assassinii,
stupri, rapine finite nel sangue. Eppure a vederli tutti insieme non si
pensa all’eccezionale concentrazione di male e peccato disseminati in
qualche ettaro, ma colpisce invece che nessuno di loro osa guardarci;
impossibile incrociare i loro sguardi, forse non sanno più guardare:
continuano a cogliere rape con un ritmo stanco e meccanico. Le guardie a
cavallo nel campo sono tre, due bianchi e un nero, eleganti, armati di
fucili a pompa e di occhi capaci di perlustrare anche i pensieri. Una
guardia, o un “freeman” nel gergo dei detenuti di Angola, si apposta
sugli argini e di fucili automatici ne ha due, uno per mano. Vengono in
mente i sorveglianti delle piantagioni, carabina e scudiscio. E non è
l’unico rimando stando alle recenti inchieste del
Times-Picayune di
New Orleans, secondo cui i detenuti sono i “nuovi schiavi” della Farm,
come viene anche chiamata Angola, perché produce quarantamila quintali
di verdura, coltiva frumento, mais e soia, alleva 2.500 capi di
bestiame, e solo in minima parte tutto cio’ viene utilizzato per la
sussistenza dei detenuti della Louisiana (“tre pasti al giorno ci
costano in totale appena un dollaro e mezzo” dice orgoglioso Young), ma
sono commercializzati da una azienda privata nei supermercati, mentre
Angola riceve milioni di dollari di fondi pubblici, quasi centomila
dollari l’anno per detenuto. Eppure l’amministrazione è stata chiamata a
tagliare il budget: non potendo ridurre le guardie speciali, ha
eliminato una ventina di uomini non essenziali, sostituendoli con delle
belve, cioè dei lupi ibridi, che da due anni pattugliano di notte le
recinzioni dei settori più sensibili.
Le notti di William Hurt
Nel braccio della morte non c’è l’aria condizionata. Una decisione
presa da Burl Cain nel 2006 quando si è resa necessaria una
ristrutturazione delle celle che ospitano 88 morti che camminano.
D’estate si possono raggiungere i 42 gradi e quindi per questi uomini
chiusi in cella per 23 ore al giorno è una ulteriore tortura; tre di
loro, malati, lo scorso anno hanno denunciato Cain e il processo è
ancora in corso. Ma tra i commenti sul sito del
Times-Picayune nessuno
menziona il direttore: “Aspettiamo quando avranno l’ago in vena e
allora sì che andranno dove fa molto caldo” scrive Ronnie Tuttle. “C’è
un solo modo per rendere utili questi tre criminali, che presto i loro
cuori e reni vengano donati a chi ne ha davvero bisogno” è il consiglio
di un tale che si firma Dafunkystuff; mentre Bill60 fa il pietoso,
“poverini, perché qualcuno non gli porta un gelato?”. William Hurt
ottenne di passare tre giorni e tre notti in una di queste celle nel
2008 per prepararsi psicologicamente per il film “The Yellow
Handkerchief”. “E’ orribile, è impensabile come l’uomo abbia inventato
una macchina della sofferenza come questa” disse. La cosa che lo colpì
di più fu che i detenuti potevano giocare a scacchi tra di loro senza
mai vedersi in faccia, solo le mani uscivano dalle sbarre. Niente tv, ma
solo Bibbia. In attesa di dire addio al mondo guardando Burl Cain negli
occhi.