da http://www.prismomag.com/bob-dylan-riportando-tutto/ di Nicola La gioia
Perché Bob Dylan è Sua Bobbità, a 50 anni da Bringing It All Back Home.
Bob Dylan ha pubblicato lo scorso febbraio il suo
trentaseiesimo album in studio, Shadows In The Night. Intanto però, in
queste settimane cadono i cinquantʼanni da Bringing It All Back Home:
che non è soltanto uno dei suoi titoli più importanti, ma lo snodo di
una carriera intera (è il disco che annuncia la «svolta elettrica»)
nonché uno degli album più riveriti e mitizzati dellʼintera storia del
rock. E visto che Nicola Lagioia a quel disco ha dedicato quantomeno il titolo di un suo romanzo, ci siamo fatti raccontare da lui perché, mezzo secolo dopo, stiamo ancora a inseguire Bob Dylan come il Bianconiglio.
La più bella dichiarazione di poetica di Bob Dylan che io ricordi, è
curiosamente contenuta in una trasmissione televisiva. Si tratta
dellʼintervista rilasciata a Ed Bradley per
60 Minutes, andata in onda sulla CBS il 5 dicembre del 2004 .
Era la prima volta, dopo 20 anni, che Sua Bobbità accettava lʼinvito a
un talk show. Si trattava dellʼennesimo periodo di rinascita. Buona
parte degli anni Novanta (dopo il bello sprazzo senza seguito di
Oh Mercy,
1989) erano trascorsi musicalmente in modo dimenticabile. Una manciata
di album senza infamia e senza lode. «Dylan è finito», o: «non ha ormai
niente da dire» erano i commenti più gentili che si facevano su di lui.
Ma ecco che nel 1997 (sotto lʼegida di Daniel Lanois) esce
Time Out of Mind, quattro anni dopo
Love and Theft, e questo è sufficiente (
Modern Times uscirà nel 2006, mentre con lʼautobiografia
Chronicles. Volume One
viene sfiorato il National Book Award) perché la gente ricostruisca in
sé il mito di Bob Dylan su altezze addirittura maggiori rispetto a
quelle da cui era stata pronta a scaraventarlo giù.
Ci si ricorda allʼimprovviso che questʼuomo ha rivoluzionato la
musica popolare occidentale del secondo Novecento. Che è in tour da un
numero imprecisato di anni, e non intende fermarsi (tra i
Cinquanta motivi per amare Dylan,
Bono Vox inserisce: «He will be in your town soon», cosa di cui ebbi la
quasi dimostrazione nel 2006, quando lo vidi arrivare a Foggia). Che
una parte del suo fascino deriva dalla incorrotta enigmaticità della sua
vita, cui fa da specchio quella delle canzoni, così sghembe, mobili,
scivolose da portare sempre chi le segue fuori asse, e dunque in un
luogo dove altrimenti lʼascoltatore (voglio dire il viaggiatore) non
avrebbe accesso. Questi sono alcuni dei motivi per cui, istintivamente,
pubblico e addetti ai lavori si ritrovarono dieci anni fa a non
includere Dylan nella Jurassic Park del rock dove riposa in vita gente
come Mick Jagger. Ovviamente Dylan non era neanche – nel XXI secolo – un
aggiornatore di codici musicali. Tuttʼaltro, lui prendeva ispirazione
dai vecchi bluesman di centʼanni fa e continua a farlo. E allora perché
la sua inattualità lo rende così contemporaneo?
.
La chiacchierata con Ed Bradley alla CBS viene continuamente portata
dai pazzi della Rete a testimonio del patto che il nostro avrebbe
stretto con il diavolo intorno al 1960. Un aggiornamento del
Doktor Faustus di Thomas Mann dove la ricompensa per la vendita dellʼanima non è la dodecafonia, ma
Blonde on Blonde.
Dylan torna ogni tanto sullʼargomento, e ammicca, dice e non dice:
«sì, è vero», finge di ammettere, «subito dopo essermi trasferito a
Minneapolis, un bel giorno mi trovai di fronte a un crocicchio…» A meno
che non la si voglia prendere come una citazione, un omaggio alla
leggenda di Robert Johnson, questo è uno dei casi in cui Bob Dylan mette
in pratica la sua proverbiale elusività con strumenti molto rozzi.
(Fare pace con il fatto che i geni non sono tali ventiquattrʼore al
giorno dovrebbe farceli apprezzare di più). In realtà a me lʼintervista
interessa per un altro motivo.
A un certo punto, parlando dellʼarte di comporre canzoni, Dylan prova
a squarciare il velo sul mistero della propria vena creativa.
Unʼimpresa difficile per lui come per chiunque, dal momento che non
sappiamo di preciso – al netto di disciplina, desiderio e forza di
volontà – a cosa è di preciso riconducibile il nostro talento di
musicisti, registi, scrittori, pittori…
«Ho imparato a scrivere versi ascoltando le canzoni folk. Se voi
cantaste John Henry le volte che lʼho fatto io, anche voi avreste finito
con lo scrivere How many roads must a man walk down.»
Il talento cʼè o non cʼè, ma sarà proprio così? Non è piuttosto una forza latente che un evento
esterno,
a un certo punto riesce a scatenare una volta e per sempre? Se non il
patto con il diavolo, non sarebbe sensato rispolverare la scena delle
scimmie davanti al monolite di
2001 Odissea nello spazio? Cosa
accade, a un certo momento della vita, che incrina il nostro interiore
vaso di Pandora, così che il talento (poco o tanto) che vi è contenuto,
finalmente non è più isolato da noi? Eravamo separati da un muro
invisibile, e ora ne siamo miracolosamente toccati. Si può parlare, come
per la fisica, di un
momento di singolarità?
Jim Morrison raccontava che diventò un artista quando, da bambino,
vide morire un nativo americano su una strada asfaltata dopo un
incidente automobilistico. «La sua anima entrò in me».
Bob Dylan ama parlare dei suoi debiti con i maestri del passato. Lo
ha fatto di recente a Los Angeles, pronunciando il discorso di
ringraziamento dopo essere stato nominato «persona dellʼanno MusiCares»
nella settimana dei Grammy Awards. Nel suo discorso ha prima reso
omaggio a gente come Johnny Cash, poi ha dichiarato: «ho imparato a
scrivere versi ascoltando le canzoni folk. Non facevo che cantarle. Mi
insegnarono che tutto appartiene a tutti. Se voi cantaste John Henry le
volte che lʼho fatto io, anche voi avreste finito con lo scrivere
How many roads must a man walk down».
Frequentare una scuola, amarla ossessivamente per apprenderne i
segreti. Mettiti alle calcagna di quelli davvero bravi, cerca di farti
contagiare, e magari presto o tardi qualcosa del loro fluido passerà
anche a te. Lo dicono in tanti. Eppure, nellʼintervista a
60 Minutes,
Dylan dice unʼaltra cosa ancora. Si spinge indietro con audacia, parla
di un momento precedente a quello in cui decidiamo cosa fare della
nostra vita. È il momento in cui la possibilità di diventare poeti (o
musicisti, pittori…) si deposita in noi come un bulbo sotterraneo prima
che ci sia mai capitato di leggere una poesia in vita nostra, o di
ascoltare una canzone o di vedere un quadro in un catalogo illustrato.
Non si tratta del rigido inverno durante il quale Dylan piombò al
Greenwich Village per tentare la fortuna né dei giorni in cui ascoltava
alla radio Elvis Presley rapito da ciò che si poteva fare con una voce e
una chitarra. Indietro, ancora più indietro… Per lui, lʼattimo di
singolarità coincide con lʼinfanzia a Duluth. La città mineraria, i
cieli rosso ferro, il radiante firmamento di bauxite che schiacciava e
al tempo stesso sollevava ruvidamente verso strani campi metafisici la
sua immaginazione di bambino: sono i panorami dove Zimmerman, a sua
insaputa, ha cominciato a diventare Dylan.
Il capo opposto di questo inizio sono le canzoni
magiche che a un certo punto Dylan si sarebbe trovato a comporre. Non quelle davvero molto buone di
Freewheelinʼ o di
Another Side. Sono i brani incredibili contenuti in
Bringing It All Back Home,
Highway 61 Revisited e
Blonde on Blonde.
«Non so come ho fatto a comporre quelle canzoni», confessa Dylan a Ed Bradley durante
60 Minutes, e inizia a canticchiare le prime strofe di
Itʼs Alright, Ma (Iʼm Only Bleeding): «
Darkness at the break of noon / Shadows even the silver spoon / The handmade blade, the childʼs balloon / Eclipses both the sun and moon / To understand you know too soon /
There is no sense in trying».
Poi (momento da brividi) si ferma un attimo, riprende a parlare, dice: «quella magia… almeno una volta sono riuscito a farlo».
«E adesso? Non puoi più farlo oggi?», chiede lʼintervistatore.
«No», risponde Dylan, «non puoi fare qualcosa per sempre. Io lʼho
fatto una volta, adesso posso fare altre cose. Ma non posso più fare
quello».
Proviamo a essere controintuitivi. O, almeno, a lottare contro
lʼimmediatezza dei nostri sentimenti. Nessuno ammette volentieri che il
momento magico della propria vita (quello in cui eravamo talmente
sprofondati nelle cose da
non essere lì) è ormai alle spalle, e ascoltare Dylan mentre parla delle canzoni di
Bringing It All Back Home come uno scrigno la cui chiave è perduta per sempre, può risultare struggente.
«No», risponde Dylan, «non puoi fare qualcosa per sempre. Io lʼho fatto
una volta, adesso posso fare altre cose. Ma non posso più fare quello».
Si tratta a ogni modo di un destino comune a ogni grande talento.
Niente di nuovo sotto il sole. Per quanti tecnici del suono possano
assoldare, qualora per assurdo Roger Waters e David Gilmour dovessero
tornare buoni amici, i Pink Floyd non riusciranno mai a incidere un
nuovo
Dark Side of the Moon, né un nuovo
The Piper at the Gates of Dawn se anche Syd Barrett tornasse dalla morte.
Sapendo allora cosa Dylan «non può più fare», chiediamoci invece cosa
vuol dire che può fare «altre cose». A quale categoria appartengono
queste «altre cose»? Rarità nella rarità. Rappresentano ciò che lo
distingue dalla già ridotta schiera di eletti che (almeno una volta
nella vita) sono riusciti a portare al massimo (forse anche più del
massimo) le proprie capacità creative. Come mai per noi il Bob Dylan
attuale gioca in un campionato che non ha nulla a che fare con quello
che il nostro immaginario riserva a Mick Jagger o Paul McCartney? È
questo forse che vale la pena domandarsi a cinquantʼanni da
Bringing It All Back Home, poiché capire come mai un equivalente di
Itʼs Alright Ma non vedrà più la luce è sin troppo chiaro.
A mia sensibilità, Dylan è la star musicale che meglio si è sottratta
a una delle più tremende (quanto inaggirabili) regole dello show
business. Gli U2 dopo
The Joshua Tree, i Cure dopo
Disintegration, i Guns nʼ Roses dopo
Appetite for Destrucion e, se ci si vuole limitare allʼItalia, Vasco Rossi dopo
Liberi Liberi, Lucio Dalla al giro di boa di
Cambio, Pino Daniele prima di
Un uomo in blues.
Non è il semplice fatto che, dopo un enorme successo, una star tende
ad abbassare programmaticamente la qualità della propria produzione per
paura di scendere sotto le quote di fatturato e pubblico insperatamente
raggiunti. Anche su quelli che continuano a fare buona musica, o provano
coraggiosamente a sottrarsi ai rituali non di rado buffoneschi che la
grande popolarità comporta, persino su di loro è come se il successo
lasciasse un morso dai cui effetti è impossibile guarire. Non gli rimane
addosso lʼaura, gli rimane addosso lʼombra. La strana ombra (appena
percepibile sotto una cascata di flash) che segnala ai più avvertiti che
sei finito.
Certo, ora riempi gli stadi, ti canticchiano nei bar e sotto la
doccia, i versi delle tue canzoni sono citati in articolesse che parlano
di cronaca o politica, sei diventato un simbolo riconoscibile, ciò
nonostante riesci a fare ancora buona musica, e certe volte persino
ottima musica (è possibile che ci scappi ancora un
Achtung Baby),
e tuttavia (per quanto tu sia stato in gamba e coraggioso) è chiaro che
sei morto. Sei al vertice della piramide rovesciata che vampirescamente
trae linfa dal talento, sei stato convertito nei suoi codici, non puoi
tornare indietro. Persino se ti dovesse capitare di perdere il successo,
quellʼombra ti resterebbe addosso. Figuriamoci se il successo continui a
cavalcarlo. Va bene, hai ancora una vita privata, riesci a infilarti
nella corazza di certi piccoli rituali di una volta, ma la
magia di prima, quella è perduta per sempre.
Per Dylan, no. Lui la magia di prima (non il prodigio a fior di labbra di
Itʼs Alright Ma,
quello anteriore alla vista della prima chitarra: i cieli di bauxite
sopra Duluth) lʼha conservata intatta. Certo, è stato costretto a
immaginarsi una vita impossibile, ma lʼha spuntata. Non ha dovuto essere
coraggioso per riuscirci. Ha dovuto essere folle. Non si è limitato a
infilarsi stagionalmente in un guscio che lo proteggesse dagli effetti
mortiferi del successo planetario. Lui è passato al contrattacco: al
Minotauro ha opposto qualcosa di così strano, bizzarro, abnorme,
sgraziato, specularmente mostruoso, da rendere alla fine innocuo il
morso della bestia.
Il Minotauro può immaginare che, tra un tour e lʼaltro, tra una sala
dʼincisione e unʼintervista da Oprah Winfrey, dopo averne saggiato il
miele proverai a sfuggire lʼartiglio del successo nascondendoti alle
Hawaii, o in una casa sperduta nel Chiantishire, e allora ti verrà a
stanare. Ma la sua fantasia non è grande abbastanza da immaginare che te
ne andrai in tour per trentʼanni (cento concerti lʼanno, quasi
trentamila dal 1988), e rimarrà in stato confusionale quando, durante
uno di questi show, dopo aver finito di ascoltare un pezzo tutto
ferraglia e voce roca che potrebbe essere uscito da
Metal Machine Music di Lour Reed, qualcuno verrà a dirgli che si trattava invece di
Like a Rolling Stone.
Queste, non sono neanche le stranezze più estreme di Bob Dylan nel
XXI secolo. Fanno parte però del sistema che lʼuomo ha trovato per
sfuggire unʼaltra volta al proprio tempo (se viviamo gli anni dei One
Direction o anche solo dei Coldplay, lui, ancora una volta,
non è lì),
e conservare qualcosa di molto più prezioso. Luogo fuori posto. Tempo
fuori sesto. Sempre in anticipo e in ritardo. Per questo ci viene voglia
di inseguirlo come fosse il Bianconiglio.