giovedì 2 luglio 2015

Tempest


Spettacolare recensione di OndaRock su "Tempest" di Bob Dylan, il suo trentacinquesimo album uscito nel 2012 che in questi giorni sto riascoltando. 


C'è una città, alle pendici della collina. Le sue strade hanno nomi che nessuna lingua umana ha mai pronunciato. È la Città Scarlatta, è la terra delle sette meraviglie del mondo. "È il luogo dove sono nato", canta Bob Dylan con il suo rantolo scavato dal tempo. Perché se Duluth ha dato i natali a Robert Allen Zimmerman, il suo doppio appartiene a un altro luogo: la patria di Bob Dylan è la stessa di Henry Lee e Omie Wise, la patria delle ombre dell'"Anthology Of American Folk Music". "Il male e il bene vivono fianco a fianco, ogni forma umana sembra glorificata", mormora sul violino antico di "Scarlet Town". Un tempo si struggeva per raggiungere il luogo in cui la bellezza ha preso forma, alla ricerca di un rifugio dalla tempesta. Ora che la tempesta è arrivata, è lì che la bellezza ha posto la sua casa. Una bellezza scarlatta, come suggerisce la copertina di "Tempest".

Il plebiscito che accompagna l'uscita di ogni nuovo disco di Bob Dylan, quantomeno nell'ultimo decennio, sembra essere diventato di volta in volta sempre più accondiscendente: nel caso di "Tempest" è bastata l'anticipazione del fatto che uno dei brani avrebbe superato i quattordici minuti di lunghezza per far gridare a priori al capolavoro. Ma con un personaggio sfuggente come Dylan è sin troppo facile cedere a qualche scorciatoia di comodo. In realtà, "Tempest" si pone in una continuità molto più stretta con i suoi diretti predecessori rispetto a quanto era stato pronosticato. Del resto, la band è sempre quella che accompagna Dylan sul palco nel suo instancabile giro del mondo, e il timone della produzione resta saldamente nelle sue mani, con una sfumatura appena più essenziale del solito.
Non c'è da stupirsi, insomma, se il morbido shuffle con cui "Duquesne Whistle" apre il disco sembra venire direttamente dalla vecchia sala da ballo di "Love And Theft". È il fischio di una fabbrica abbandonata, come quelle che un tempo erano l'orgoglio della città di Duquesne. È il fischio della locomotiva di un treno fantasma, che chiama a raccolta tutti quelli che incontra al suo passaggio. "Listen to that Duquesne whistle blowin'/ Blowin' like it's gonna sweep my world away". E il mondo in cui conduce è un mondo crudele e senz'anima, come nel video girato da Nash Edgerton per il brano: dove anche lo slancio ingenuo dell'innamoramento finisce calpestato dalla violenza, con il ghigno cinico di Dylan ad attraversare i bassifondi alla guida di una gang di strada.

"This is hard country to stay alive in/ Blades are everywhere and they're breaking my skin", proclama subito "Narrow Way". Avidità, corruzione, tradimento: la realtà di "Tempest" ricorda da vicino il decadente scenario immaginato da Dylan nel film "Masked And Anonymous". Il passo è quello del blues infaticabile di "Modern Times", che in "Early Roman Kings" si trasforma addirittura in un calco della celeberrima "Mannish Boy" di Muddy Waters. Ad accompagnarlo c'è ancora una volta la fisarmonica di David Hidalgo dei Los Lobos, come già in "Together Through Life". Potrebbero essere gli arroganti sovrani dell'antichità, potrebbero essere i guerrieri del Bronx che ne hanno adottato il nome: gli "Early Roman Kings" di Dylan sono ugualmente infidi e lascivi, ugualmente capaci di divorare anime e città.
Tra il languore country alla Hank Williams di "Soon After Midnight" e il senso di rimpianto di "Long And Wasted Years", per incontrare toni meno attesi occorre arrivare agli accenti pop-rock di "Pay In Blood", da qualche parte tra gli Stones e Warren Zevon, che con il suo ringhio vendicativo sarebbe stata perfetta per il Dylan dei tardi anni Settanta. Ma la vera novità di "Tempest" è un'altra: è il ritorno di Dylan alla narrazione, allo storytelling nella sua accezione più classica. Un gusto del racconto vivido e torrenziale, con cui Dylan non si cimentava più ormai da anni e di cui sembra invece pronto ad andare alla riscoperta nella parte conclusiva dell'album.

È questa, probabilmente, la ragione per cui "Tempest" sembra già destinato alla reputazione di vertice della discografia dylaniana del nuovo millennio: la scelta di Dylan di indossare nuovamente i panni del cantore di storie, pur senza l'immaginifica visionarietà del passato. In "Tin Angel" presta il suo timbro più mefistofelico a una murder ballad sanguinosa e ossessiva, tutta incentrata su un dialogo dal sapore grottesco. In "Roll On John" dedica una tardiva elegia funebre a John Lennon, quasi a voler replicare quella scritta ormai trent'anni fa per Lenny Bruce. Ma è soprattutto la cronaca del naufragio del Titanic, nelle oltre quaranta strofe di "Tempest", a reclamare un posto d'onore nel canzoniere di Dylan.
Danzando su un valzer dalle reminiscenze celtiche, il cantautore prende spunto da "The Titanic" della Carter Family per costruire una galleria di personaggi dal taglio cinematografico, in cui non è certo un caso trovare anche un "Leo" che rimanda senza troppe difficoltà al blockbuster di James Cameron. "La gente dirà che non è molto veritiero", riconosce Mr. Zimmerman. "Ma un songwriter non si interessa di che cosa sia veritiero. Quello di cui si interessa è ciò che avrebbe dovuto accadere, ciò che avrebbe potuto accadere. È questo il suo genere di verità".

Un tempo, di fronte alla tempesta, la preoccupazione di Dylan sarebbe stata quella di trovare qualcuno da incolpare. Anche allora, forse, stava raccontando un suo genere di verità. Oggi, invece, il suo Titanic s'inabissa con un senso di fatalità, mentre la vedetta sogna la nave inghiottita dalle onde. Il fratello si leva contro il fratello con la furia cieca della sopravvivenza. Gli amanti si dicono addio, gli ufficiali piangono sulle pagine del libro dell'Apocalisse. Ma qualcuno abbandona la sua cabina per porgere la mano a chi affonda. E per levare lo sguardo verso il cielo.
È questo che a Dylan interessa descrivere: come nel momento del dramma possa svelarsi la vera stoffa di cui un uomo è fatto. Ovvero, per dirla con le parole di Camus, come di fronte alla sventura l'uomo sia costretto a "ritrovare o assumere la più grande virtù: quella del Tutto o Nulla". La tempesta, paradossalmente, è la grande occasione. L'occasione di essere se stessi, anche quando la bellezza è scarlatta come il sangue.