sabato 28 novembre 2015

Keith Richards, la pietra rotola ancora: "Sono contro l'autorità. Non dirò mai Yes Sir!"

 da Repubblica.it di GIUSEPPE VIDETTI


Incontro con il chitarrista del Rolling Stones che, a quasi vent'anni dal suo ultimo album solista, pubblica "Crosseyed Heart". Tra un tiro di sigaretta e l'altro ci ha spiegato qual è il segreto della sua forza: "Una canna la mattina? Scandalo! Ma cazzo, sono Keith Richards, cosa si aspettano da me?"


NEW YORK – Con quello straccio tra i capelli e le rughe profonde, sembra un chitarrista zingaro o un Cristo sofferente scolpito su un tronco d’ulivo. Poi appena dopo l’intervento della procace truccatrice – che congeda con un bacio non proprio casto – gli occhi bistrati, jeans neri e camicia in seta a piccoli pois tagliati di fresco dalle forbici punk di Hedi Slimane, Keith Richards è pronto per il pomeriggio da rockstar a Manhattan (non in una delle solite tane da divo, un boutique hotel sulla Bowery, due passi dall’ex CBGB’s, tempio del punk), una fuga di due giorni dal Connecticut, dove vive con la moglie Patti Hansen. Consumato dalla vita on the road, segnato dalle cattive abitudini, prosciugato dalle infinite trascuratezze cui solo agli immortali è dato sopravvivere, Keef (per gli amici) potrebbe avere i suoi 71 anni o i 969 di Matusalemme; nel rock è la maschera che parla, e la sua è potentissima. Se ne frega degli slogan, di quello che han scritto su di lui, grande chitarrista posseduto da mille demoni o Lucifero partorito durante un voodoo a base di blues. "Ma quale diavolo!", esclama scoppiando in una risata catarrosa e subito aspirando voluttuosamente dall’ennesima Marlboro come fosse una riserva d’ossigeno, "l’unica volta che ne ho visto uno aveva il volto del dentista. Era il mio incubo da bambino, per colpa sua ho avuto per anni una bocca sgangherata. Ora i denti sono a posto, in America hanno fatto miracoli dopo che con l’eroina ci ha dato un taglio.

Quale che sia il suo interlocutore, Richards pretende normalità, confidenza, allegria. Continua a essere una star riluttante dopo 53 anni da Rolling Stone con oltre duecento milioni di dischi venduti, riff memorabili che hanno segnato in maniera indelebile la storia del rock (Gimme Shelter e Jumpin’ Jack Flash sono solo esempi), l’ennesimo trionfale tour mondiale concluso da pochi giorni, una mostra celebrativa in febbrile preparazione a Londra (Exhibitionism, alla Saatchi Gallery, dal 5 aprile al 4 settembre 2016), un’autobiografia best seller a dir poco rivelatoria – Life (2010) che affettuosamente chiama La Bibbia – un audiobook per bambini, Gus and Me, disegnato dalla figlia Theodora, in cui narra la storia dell’adorato nonno materno e della sua prima chitarra, e ora un disco solista (il terzo) dopo quasi vent’anni, Crosseyed Heart, che esce il 18 settembre. "Tutto è strano come è sempre stato, come deve essere", dice ridendo di cuore. "Ho fatto un disco, ne faccio di rado. Tre anni fa, avevo appena finito di scrivere La Bibbia, mi resi conto che non facevo niente da troppo tempo. Mi sentivo strano – ormai so che quando la situazione si fa strana cominciano a materializzarsi buone cose. Scrivere un’autobiografia è vivere due volte, una sensazione spaventosa, come andare dallo psicanalista suppongo (chi c’è mai stato?)".



C’è un Keith professionale, composto, paziente, che si sottopone alla sfilza di domande – registratore acceso. E c’è un Keef divertente, ironico, buontempone che a microfono spento ha voglia di ricordare, montare e smontare leggende metropolitane, beffarsi delle frasi a effetto che i "motherfucker" sparano come scoop: "Una canna la mattina? Scandalo! Ma cazzo, sono Keith Richards, cosa si aspettano da me? Sgt. Pepper un disco di merda? Blasfemo! Avrò ben il diritto di esprimere un’opinione; fu quello il disco ci costrinse a incidere nel ’67 Their Satanic Majesties Request, il più brutto degli Stones. Ne parlavo anche con John (Lennon), un fratello, ne ho riparlato di recente con Paul (McCartney), un amico". Dalla bocca rugosa espira una nuvola di fumo denso, ritratto perfetto del drago che Johnny Depp ha voluto come padre nel film Pirati dei Caraibi - Ai confini del mondo e l’amico Tom Waits ha raccontato in un poema: “Keith Richards può andare più veloce di un fax / La sua urina è blu / Mani da spaccalegna / Braccia da marinaio / Schiena da soldato / Cervello da detective / Spalle da boxer / Voce da ragazzo del coro”. "Con Tom abbiamo condiviso molte cose", mormora Richards, e fa la lista di quelli che con lui hanno condiviso l’incubo della dipendenza – Gram Parsons, John Phillips dei Mamas & the Papas, John Lennon. "Brian Jones no, lui ne era schiavo quando ancora non mi facevo. E io, che gli avevo soffiato Anita Pallenberg, non ero la persona giusta per dargli una mano".

 
"Molte persone sono convinte che sia un album geniale, per me è un miscuglio di spazzatura". Così Keith Richards liquida il capolavoro dei Beatles in un'intervista rilasciata alla rivista Esquire criticando la svolta psichedelica di "Sgt. Pepper's and Lonely Hearts Club Band". Il leggendario chitarrista dei Rolling Stones rincara la dose definendo i Fab Four "poco originali"

Ha voglia di ricordare le scorribande romane degli anni Sessanta con la Pallenberg, che girava Barbarella a Cinecittà, la Campo de' Fiori di Gabriella Ferri, che per Anita era come una sorella e il pittore Mario Schifano, "con cui lei aveva avuto un flirt in piena Dolce Vita. Anita parlava cinque lingue e aveva accesso al jet set, conosceva anche Fellini, frequentava il giro del Living Theatre allora di stanza nella capitale". A Roma la ragazza aveva contratto quelle cattive abitudini ben prima che Keith iniziasse il suo match con l’eroina, così come Donyale Luna, indimenticata top model di colore originaria di Detroit che Richards e Pallenberg frequentarono assiduamente in quel 1967 (sarebbe morta di overdose nel 1979). Era il periodo in cui se una ragazza entrava nel clan degli Stones saltava fatalmente da un letto all’altro (Marianne Faithfull, girlfriend di Jagger, ancora ricorda con un certo rimpianto l’unica notte d’amore col chitarrista). Storie in parte narrate in Life, una biografia unica nel suo genere, senza censure, come dovrebbero essere i libri di chi sceglie di raccontarsi. "È stata La Bibbia a riscaraventarmi tra le braccia del blues", spiega. "Questa volta me la sono goduta in studio, non succedeva dal 1991 – prima di Cristo?". Si spancia dalle risate, orientato, arguto, perfettamente a suo agio nel ruolo del sopravvissuto. "Una riunione tra amici: Aaron Neville, Norah Jones, Sarah Dash. Ma poi quando uno fa un disco solista va incontro a mille problemi, si capisce…".


Di che genere? Uno col suo potere ha carta bianca sempre e comunque.
"E invece no. Il primo problema è stato: quando lo facciamo uscire? C’è sempre il tiranno con cui fare i conti, i Rolling Stones, non bisogna mai contrastare gli interessi della band. Avrei voluto pubblicarlo alla fine dell’anno scorso e Mick (Jagger): 'Oh no, siamo ancora in tour, aspetta cazzo!'. Così ho trovato un buco a settembre".

Vuol dire che gli Stones torneranno presto in studio per un nuovo album?
"Con ogni probabilità sì, alla fine dell’anno e nel 2016. E io intanto approfitto della pigrizia degli altri (risata birichina, ndr). Ormai ognuno di noi ha i suoi ritmi, da anni non abbiamo più date fisse da rispettare se non quelle dei concerti. Niente più obblighi contrattuali per carità, né come solista né come chitarrista degli Stones".

Incredibile che il blues sia ancora un punto di riferimento, che eserciti su di lei la stessa suggestione degli anni in cui divideva i primi entusiasmi con Jagger, Brian Jones e Charlie Watts, più di cinquant’anni fa.
"È l’amore della mia vita, più attraente del sesso, delle droghe, delle donne. È la lingua che parlo meglio e quella in cui meglio mi esprimo. Tutti i suoni meravigliosi, degli anni Venti, Trenta e Quaranta – big band comprese – proviene dal blues. È il centro della musica e se c’è qualcosa di buono che l’America ha dato al mondo, l’unica per cui non possiamo biasimarla, è il blues e la popular music in generale. Fa parte della mia struttura, è l’ossatura della mia anima – non il midollo, quello l’ho bruciato in altri modi, come sa (risata diabolica, ndr)".

Le ha salvato la vita. Non riusciamo proprio a immaginarla in ufficio dalle nove alle cinque e, a questo punto, in pensione.
"No guardi, io per quella roba lì non sono mai stato tagliato. Non avevo prospettive, ero completamente perso quando pensavo al futuro. Fino al momento in cui cominciai ad ascoltare Muddy Waters e tutti gli altri: voglio creare quei magici accordi, voglio combinarli e ricombinarli fino all’esaurimento – e non c’è stata fine. Sono stato fortunato a imbattermi con la musica giusta, quella che fa scattare la scintilla e, certamente nel mio caso, ti cambia la vita. Ma poi ho anche avuto culo, dove sarei andato senza Mick, il migliore frontman dell’ultimo secolo?".

Cosa ascoltava in casa da ragazzino?
"I dischi di Doris, mia madre. Billie Holiday, Ella Fitzgerald, Louis Armstrong. Allora non sapevo neanche fossero neri, non faceva differenza per me. Il ritmo sincopato è il mio ritmo naturale, io sono il 'roll' del rock (ride a crepapelle, ndr)".

Si è mai chiesto, da adulto, come mai quella musica l’avesse sedotto in maniera così prepotente e così intima?
"Ci ho provato. Ci sono ragioni profonde che sfuggono anche a me. Sarà tutto merito di Doris, un merito che non le ho mai riconosciuto, poveretta. Mamma mia! (esclama in italiano; Richards chiama genitori e nonni col nome di battesimo, ndr). Ma è vero che ho avuto un rapporto, come dice lei, intimo, con la chitarra, anche con le sue forme, così sinuosa com’è potevo dormirci e lo facevo. Con il sesso ho preso confidenza molto tardi, con le donne ancora più tardi e fondamentalmente mi considero monogamo. A modo mio lo ero anche con le groupie, non è mai stato sesso e basta".

Già, lo racconta anche nel suo libro, non ha mai fatto il primo passo. Era il classico figlio unico viziato?
"I figli unici crescono più in fretta perché vivono costantemente a contatto con gli adulti, ascoltano i loro problemi, non hanno fratelli con cui cazzeggiare per casa. Certo, ero il cocco di mamma. Se bussavano alla porta per venderci qualcosa io diligentemente rispondevo: mamma ha detto che non abbiamo bisogno di niente, arrivederci. Con mio padre non ci siamo visti per anni dopo il divorzio, ma alla fine siamo stati molto vicini. Fu un pezzo dopo, durante il tour americano di Tattoo You, nel 1981".

Non sarà mica vero che ha sniffato le ceneri della cremazione? Fu davvero "Ashes to ashes, father to son", cenere alla cenere, di padre in figlio, come scrive in Life?
"Ne ho sniffato solo un residuo che era caduto sul tavolo quando, dopo sei anni, aprii l’urna per spargerle sotto la quercia, come lui avrebbe voluto".

Bob Dylan dice sempre ai giovani artisti, "se ti allontani dal blues sei fottuto". Qual è il motivo per cui resta ancora il grande riferimento transgenerazionale, che si tratti di Kurt Cobain o Jack White?
"Quel che dice Bob in materia di musica è legge. Grazie a Dio c’è stato anche un momento in cui il blues era tremendamente di moda, tra la fine degli anni Cinquanta e i primi anni Sessanta, quando impazzivamo per John Lee Hooker, Muddy Waters, B.B. King e Buddy Guy. In altri periodi il blues non è stato così in primo piano, ma è sempre rimasto strettamente connesso alla popular music, proprio per le ragioni che lo hanno generato: la sofferenza, la nostalgia, la sopraffazione, la necessità di creare un linguaggio che alleviasse la pena e la fatica e fosse incomprensibile agli schiavisti. E non c’è solo Africa dentro, nei blues risuona la musica tzigana e il suono della balalaika e misteriosamente anche qualcosa che mi è capitato di ascoltare in Cina. È impossibile classificarlo, catalogarlo, pontificare come in Inghilterra fecero certi critici stolti che violentemente erigevano mura intorno alla purezza del jazz o del blues – due forme tutt’altro che pure, tanto che anche la musica pop europea ha strette connessioni col blues".


Nel disco c’è anche la cover di Goodnight Irene di Leadbelly, un leggendario menestrello, cercaguai come lei. È un brano che le ha riportato alla mente ricordi e sensazioni particolari?
"Volevo incidere una classica canzone folk americana. Se ho scelto questa è perché Tom Waits, mio buon amico, mi ha mandato un libro su Leadbelly (A Life in Picture, Ed. Steidl, 2007; Tom Waits aveva ripreso Goodnight Irene l’anno prima nell’album Orphans: Brawlers, Bawlers & Bastards). Mi arrivò insieme a una dodici corde che avevo appena acquistato. L’associazione tra le due cose fu immediata: devo incidere Goodnight Irene. È legata alla mia infanzia, Leadbelly la registrò nel 1933, in Inghilterra arrivò sull’onda del blues revival. Solo più tardi avrei capito che in quelle cose che chiamavamo americane di America non c’era niente. Il paese è un miscuglio di razze. Questo e solo questo mi affascina degli Stati Uniti: al contrario dell’Europa, ne riconosci l’identità attraverso la musica più che attraverso la letteratura o la pittura. È qualcosa che sfugge ai leader, che il potere non può controllare, una delle pochissime. Nessun dittatore può imbrigliarla. È zona franca, l’unica che ci resta".

Leadbelly ebbe una vita molto travagliata. Non diversa dalla sua, considerando che per anni lei ha dormito con la rivoltella sotto il cuscino…
"Ma non l’ho usata (ride da pazzi, ndr). Leadbelly aveva il coltello facile. E magari il bianco che aggredì se lo meritava anche, chissà… Ma immagini quale potere doveva avere la musica di quel 'motherfucker' per convincere il direttore del carcere a condonargli parte della pena".

Come reagì la prima volta che andò in tour con gli Stones nel Sud degli Usa e si rese conto che i suoi idoli subivano ancora quell’umiliante segregazione? Anche voi ne foste in qualche modo vittima: vi chiamavano 'frocetti' laggiù, solo perché eravate capelloni.
"Ricordo in particolare una serie di concerti in South Carolina, tra il ’64 e il ’65, mi pare ci fossero con noi Chuck Berry e Bo Diddley. Ci spostavamo in bus tutti insieme, bianchi, neri, chi se ne fregava? Ci fermammo in un punto di ristoro e stavo per entrare con i fratelli nel wc quando uno di quei fottuti mi fermò e mi indicò la scritta sulla porta, 'colored only' ('ingresso riservato ai neri'). Bastardi, gridai. E pisciai tra i cespugli. La schiavitù era ancora lì dietro l’angolo".

C’è un blues col quale ha identificato la sua follia di rocker?
"Credo che Still a Fool (“Ancora pazzo”) di Muddy Waters sia la canzone che rappresenta quel lei intende. È un brano che incise alla fine degli anni Quaranta e fu riciclato dentro quella Rollin’ Stone che noi gli scippammo per dare un nome alla band".

Trouble, 'Tormento', è una canzone del nuovo cd ma anche una parola chiave nella sua storia personale. Ora, guardandosi indietro, i guai che ha avuto – droga, arresti, processi – sono stati una spinta o un freno alla creatività?
"L’origine di tutti i miei problemi è stata la droga. Ha fatto bene, ha fatto male alla musica? Non lo so. Di certo posso assicurarle di non aver scritto le mie cose migliori sotto l’effetto dell’eroina, men che meno Satisfaction – cinquant’anni fa. Perché lo facevo? Volevo sperimentare, ho usato il mio corpo, il mio cervello, come un laboratorio. Ho voluto essere Dr. Jekyll e Mr. Hyde, me ne fregavo delle implicazioni sociali. Ci sono sempre stati drogati nella storia e nella storia delle arti, gente che ha provato, è andata avanti, ci ha lasciato le penne, ci ha dato un taglio. Ma poi ho scoperto che il vero test lo fai su te stesso quando sei lucido".

Altri non ci sono arrivati.
"La parola moderazione può sembrare un paradosso pronunciata da me. Ma se cerchi lo sballo sempre più grande rischi grosso, soprattutto dopo i periodi di disintossicazione è fatale assumere dosi massicce. Fu il motivo della mia rottura con Anita, avevamo deciso di smettere invece scoprii che si faceva più di prima".

Le è mai mancata la normalità in questi decenni travolgenti? O ha dovuto sacrificare qualcosa per arrivare al punto in cui è, un mito e un’icona per più di una generazione?
"Non saprei. Cosa ho sacrificato? Una interminabile, noiosa vita familiare? (risata furbesca, ndr). Piuttosto qualche volta mi sono sentito un martire; la gente, il pubblico, mi ha dato la libertà di essere Keith Richards, nel bene e nel male. Nei momenti più duri, mi è capitato di pensare: 'Hey, ma fin dove volete che arrivi?'. È come se mi avessero dato il lasciapassare per una vita parallela – va’ avanti e dacci quel che ci piace. Non riesco a immaginare cosa sarei oggi se non fossi un Rolling Stone. Non penso di essere un genio né di essere il Re Mida del rock. Ci ho lavorato, e anche sodo, ma ho anche lavorato con gente brava. E dopotutto nonostante gli alti e i bassi siamo ancora amici".

Nella sua biografia ribadisce più volte che non cercava né fama né denaro quando formò i Rolling Stones ma che era solo ingordo di musica. Dev’essere stato fastidioso affrontare l’isteria dei primi anni, il glamour e anche la "detestabile attrazione" – parole sue – che Mick aveva/ha per il jet set.
"Ma lo sa che nei concerti dopo Satisfaction le urla delle ragazzine sovrastavano la musica? Brian Jones suonava il motivetto di Braccio di Ferro e nessuno se ne accorgeva in quella bagarre. Quanto al resto, l’ho sempre vissuta come una distrazione. Era inevitabile che accadesse con uno showman come Mick, così naturalmente esibizionista. Era pronto per gli stadi già quando muovevamo i primi passi al Marquee di Londra. È stata una crescita naturale, non puoi restare insensibile se una figa pazzesca ti lancia le mutandine, non puoi restare indifferente alle lusinghe di un regista come Jean-Luc Godard, non puoi chiudere la porta del camerino a Lee Radziwill (la sorella di Jackie Onassis, ndr) o Truman Capote, non puoi pretendere di esibirti al Circo Massimo – che serata ragazzi! – e snobbare il sindaco di Roma".
 
Keith Richards interpreta la sua "Words of Wonder" (dall'album solista "Main Offender") e una cover di "Get Up Stand Up", il classico reggae di Bob Marley, in una jam session "planetaria" con musicisti di strada e artisti famosi come Keb' Mo', Mermans Mosengo e Sherieta Lewis. Richards aderisce al progetto della Playing For Change Foundation, l'organizzazione no profit che si è data la missione di edificare scuole di musica destinate all'infanzia nei luoghi più disparati del mondo.

Ha qualche rimpianto per non essere stato più prolifico come solista, soprattutto negli anni in cui Mick si era invaghito di Bowie ed era tentato dalla disco music?
"Prolifico è una strana parola per un musicista. Scrivo canzoni a getto continuo – mi vengono anche nel sonno – ma ovviamente la band ha sempre avuto il meglio. Io scrivo e basta, devo farlo. Se ora ho inciso questo disco è perché non mi andava di restarmene con le mani in mano. Lo studio di registrazione è la mia seconda casa. Non dico la prima altrimenti mia moglie si arrabbia. Per dedicarmi a lei e alle figlie ho evitato di avere una postazione domestica. Sa cosa vorrebbe dire avere dei musicisti per casa tutto il tempo? Altro che una canna la mattina! Ma a casa scrivo, scrivo incessantemente, come facevo agli esordi con Mick, quando il nostro primo manager ci chiudeva a chiave in cucina per costringerci a produrre nuove canzoni".

Dopo Life ha avuto il tempo di narrare la sua infanzia in un audiobook, Gus and Me, dedicato a suo nonno, che le fece scoprire la chitarra. Sarebbe mai diventato l’artista che è senza l’incoraggiamento di Gus?
"Senza le sue curiosità e la sua generosità non avrei mai messo le mani su una chitarra. Ne aveva una in casa, appoggiata come un cimelio sul piano verticale. Mi disse: 'Quando sarai alto abbastanza la prenderai da solo'. E così andò, non ha mai preteso di insegnarmi nulla ma mi punzecchiava continuamente. Aveva capito che con me l’autorità non funziona. 'Chi sa suonare uno strumento ha un amico in più nella vita', mi diceva sempre. Era stato un artista in gioventù, la sapeva lunga".

Come reagì Gus quando i Rolling Stones scatenarono quel putiferio?
"Rideva come un pazzo quando gli raccontavo quel che succedeva sotto il palco, di tutte quelle ragazzine che rientravano col fidanzato e poi sgattaiolavano da casa in piena notte per venirci a cercare. La follia cominciò molto presto, in un pub di Hampstead intervenne la polizia perché un gruppo di teenager scatenate si avventarono su Mick. Ci rifugiammo in una macchina. Mentre cercavamo di svignarcela udii il suono di un violino e vidi dal finestrino il nonno che si faceva largo tra quelle invasate suonando e ammiccando. Ci marcava stretto".

Ora anche lei è nonno. È pigro quando non è in tour con gli Stones? Un uomo di casa?
"Sì, finalmente! La famiglia è cresciuta a dismisura, ho cinque nipoti, non mi annoio. E poi ho i miei libri per i momenti di solitudine, sono un lettore vorace, adoro le biblioteche, la nostra memoria. Mi piace Patrick O’Brian ma anche Voltaire. Mi sono avventurato persino nel Mein Kampf, che noia mortale, non sono riuscito a finirlo, oltre a tutto il resto Hitler era anche un pessimo scrittore".

Soffrì davvero così tanto quando a 13 anni la espulsero dal coro?
"Fu come se mi avessero ucciso. Io e i miei amici Spike e Terry eravamo i soprano migliori. Poi la voce cambiò – esplosione ormonale, capisce? – e addio sogni di gloria. A scuola ci fecero perdere l’anno perché avevamo dedicato troppo tempo al coro e poco allo studio. Da quel momento il mio unico obiettivo fu quello di farmi espellere. Ci misi due anni ma ci riuscii. Lì iniziò il mio rifiuto dell’autorità che da adulto si sarebbe tradotto in un costante corpo a corpo con poliziotti e giudici. 'Yes Sir' diventò per me la frase più odiosa da pronunciare. Capisce ora perché sono stato sempre perseguitato dai poliziotti? Erano appostati fuori casa anche quando non c’era ombra di roba in giro".

Magari senza quell’umiliazione sarebbe stato più attratto dal canto che dalla chitarra.
"Non me ne parli, sono ancora incazzato, non c’è nulla che io avrei potuto imparare da quella gentaglia. Era una scuola di merda, tutte le scuole più o meno lo sono. È un bel culo trovare un insegnante come si deve. I miei maestri erano appena tornati dalla guerra, non andavano troppo per il sottile".

Le è mai capitato durante la carriera di provare quella stessa umiliazione?
"Oh, sì. Ci hanno pensato i poliziotti a riaprire la piaga di volta in volta. Ma a quel punto, devo dire, avevo prodotto gli anticorpi. Milioni di persone là fuori pronte a scendere in piazza e gridare 'liberate Keith!'".

E d’altro canto, si è mai sentito insicuro in questo mezzo secolo? Ha mai tremato all’idea che la sua musica potesse perdere il contatto col pubblico? Durante la furia del punk, ad esempio.
"Questo ha incrinato la mia amicizia con Mick: è ridicolo andare a caccia di celebrità, assurdo. Se lo fai t’impantani in mille insicurezze. Al contrario di lui, sono sempre rimasto incollato ai miei principi musicali. Devi essere quel che sei, svecchiare il suono è un’illusione. Questo ha salvato gli Stones, lo spirito di gruppo e restare fedeli a se stessi. Mick s’illudeva di vendere milioni di dischi come solista, ma poi è tornato all’ovile".

Da ragazzi si pensava che il rock & roll fosse musica per giovani ribelli, che tutto si sarebbe esaurito nel giro di una generazione. Pare di no a giudicare dagli Stones, da Dylan, da Paul McCartney. E non è ancora revival.
"Chi lo pensava? Non io. Per me il rock & roll è sempre stato per tutti, fin dall’inizio. Avvertivo qualcosa di profondissimo, di sconvolgente in quel ritmo. Mai pensato che fosse musica usa e getta. Non ho mai trovato un duplicato di quella chiave che apre l’anima".

venerdì 27 novembre 2015

The life of a man


Il leone di Sheffield è tornato a ruggire, anche se con un album postumo. Più che un album è una raccolta dei suoi grandi successi. Un raccolta che racconta la sua lunga carriera o meglio come si evince dal titolo la sua vita. 
"The life of a man" è stato consegnato il 20 novembre ai mercati musicali di tutto il mondo, ed ieri sera l'ho ascoltato tutto. L'opera raccoglie tutti i successi di Joe Cocker, dal 1968 fino al 2014, anno della sua morte. Raccoglie tutti i brani più importanti di qualunque etichetta musicale e sono tutti in versione originale. In una sola raccolta ci sono 22 album.
La vita di un uomo, e che vita quella di Cocker, contiene tutti i successi del soul man inglese. Si passa dalla passione e dalla voce rauca del Joe di Woodstock alla maturità musicale che raggiunge dopo i sessant'anni con straordinari pezzi pieni di sentimento e dolore. 
Da  "You are so beautiful"a  "Cry me a river", da "Many rivers to cross" a "You can leave your hat on". Presenti ancora "I hope", "Summer in the city", "Come together", "When the night comes", "Feelin' Alright", "One", "Delta Lady" e tanto altro. Tantissime le cover che sono state parte essenziale della carriera del nostro Mad Dog.   

A mio parere il pezzo più toccante è "Unforgives" in versione studio. Una decina sono i live inseriti, ed in totale la raccolta conta  36 brani.
Anche se conoscevo tutti i brani della raccolta, penso ne valga la pena acquistarla anche perchè il prezzo è modico e la qualità è eccellente. L'ultima chicca dello straordinario interprete e cantante ci viene direttamente dall'aldilà.
Di seguito il piano completo dell'opera:
Disco 1
1.With a Little Help from My Friends
2.She Came in Thru the Bathroom Window
3.High Time We Went
4.I Can Stand a Little Rain
5.Many Rivers to Cross
6.Shelter Me
7.You Can Leave Your Hat On
8.Can't Find My Way Home
9.Darlin' Be Home Soon
10.One
11.My Father's Son
12.Fire it Up
13.Unchain My Heart
14.Feelin' Alright
15.Delta Lady
16.Marjorine
17.Cry Me a River
18.The Letter
19.You Are so Beautiful
Disco 2
1.I Shall Be Released
2.Something
3.Up Where We Belong
4.When the Night Comes
5.Summer in the City
6.Don't You Love Me Anymore
7.Unforgiven
8.Have a Little Faith in Me
9.You Are so Beautiful
10.Woman to Woman
11.Tonight
12.Night Calls
13.Hard Knocks
14.The Simple Things
15.First We Take Manhattan
16.I Come in Peace
17.With a Little Help from My Friends



giovedì 19 novembre 2015

I demoni di Syd Barrett in una graphic novel

da  http://www.rollingstone.it/cultura/interviste-cultura/i-demoni-di-syd-barrett-in-una-graphic-novel/2015-11-13/Part1

In due anni ha fatto la storia del rock, ma gli eccessi lo hanno divorato, e i Pink Floyd sono andati avanti senza di lui. Ne abbiamo parlato con lo sceneggiatore del fumetto "Wish You Were Here"

 

Sembra che sia impossibile scindere la storia (nel senso anche didattico del termine) della musica rock dagli eccessi – puzza di cliché, è vero, ma i fatti parlano chiaro. Qualcuno ci ha lasciato le penne, più di uno, altri hanno trascinato i loro problemi fino a una fine piuttosto ingloriosa. Questo è il caso di Syd Barrett, fondatore dei Pink Floyd con Nick Mason, Roger Waters, Richard Wright e Bob Klose, a cui David Gilmour si è unito nel 1968 per sostenere Barrett durante le performance. Presto Barrett ha iniziato ad abusare di droghe (in particolare LSD), e dopo essere diventato totalmente inaffidabile, lascia il gruppo e resta sempre più invischiato nei sui demoni. Questa è la storia che racconta Wish You Were Here – Syd Barrett e i Pink Floyd, la graphic novel disegnata da Luca Lenci e scritta da Danilo Deninotti pubblicata da Edizioni BD. Abbiamo parlato con lo sceneggiatore per capire le ragioni per raccontare questa storia, e come mai ci interessano tanto le vite dei disgraziati.
Conoscevi già la storia di Syd Barrett o l’hai approfondita per questo fumetto?
Conoscevo già bene la storia di Barrett. E’ una figura che mi ha sempre affascinato molto. Pensa che, ormai parecchi anni fa, ero arrivato a desiderare talmente tanto il primo disco dei Pink Floyd – lo avevo ascoltato solo in cassetta, prestata da un amico – che l’ho acquistato spendendo l’intera paga di una giornata di lavoro da standista a una fiera.
Al di là dell’aneddoto, sapevo che, dopo Cobain, volevo raccontare una storia che continuasse a esplorare i legami e l’amicizia, ma in una polarità opposta, fatta di distanze e assenza. E in questo, la storia di Barrett e dei Pink Floyd era perfetta.
Chiaramente poi, prima di mettermi a scrivere, ho passato un paio di mesi a studiare i testi che non avevo letto e recuperare filmati e documentari che non avevo visto.
Nonostante l’epica riguardo al periodo, la fase finale degli anni ’60 non è stata solo amore e libertà, e la storia di Barrett ne è un simbolo. In un certo senso ha pagato il conto anche per gli eccessi degli altri?
Sicuramente la vicenda di Barrett, ma anche le fini tragiche di Hendrix o di Janis Joplin, sono esempi di come tutto quel periodo e la sua mitologia avesse anche un lato decisamente oscuro, che sul finire del decennio ha riscosso un conto salato. Ma credo sia esagerato definirlo così. Moltissimi eccedevano e lui ha avuto più sfortuna di altri. Alla fine, ogni persona, a prescindere dall’epoca in cui vive, ha a che fare i propri demoni, i propri fantasmi e le proprie paure. Qualcuno supera gli ostacoli, qualcuno impara a conviverci, altri, purtroppo, non ce la fanno.

Come consideri la “gestione” dei problemi di Barrett fatta dagli altri componenti dei Pink Floyd?
Sai, vero, che qualsiasi risposta rischia di valermi una denuncia dall’avvocato di Roger Waters? [ride] Tutti conoscono l’aneddoto in cui, un giorno, gli altri Pink Floyd non sono andati a prendere Syd prima di un concerto ponendo, di fatto, fine alla sua presenza nella band. Sono dinamiche classiche e tipici cliché del rock: un componente della band non è più gestibile e se vuoi andare avanti devi fare qualcosa. Può essere triste ed egoista, soprattutto se quello che viene fatto fuori è un tuo amico; ma è così che funziona da sempre.
C’è però anche l’altro lato della medaglia. Gli stessi Floyd sono i primi che hanno cercato più volte e senza successo di portare Barrett da un medico. Io credo che ci abbiano davvero provato a fare qualcosa per lui, che non lo abbiano abbandonato (ne sono dimostrazione gli sforzi di Gilmour e Waters nella registrazione dei suoi album solisti) e che gli abbiano sempre voluto bene. Ma, come faccio anche dire a Waters nel fumetto – che è poi ciò che è accaduto a Syd – “quello di ognuno di noi, è un viaggio solitario”.
Questo è il secondo fumetto musicale che hai scritto, dopo Kurt Cobain – Quando ero un alieno. Ti piacciono i disgraziati di talento?
Mi ha sempre affascinano come spesso sia impossibile sopravvivere a un certo tipo di talento unico. Come grazie a un talento eccezionale, determinati artisti riescano ad arrivare in spazi che prima si pensavano irraggiungibili o creare cose che solo loro potevano fare, e come lo stesso talento finisca però per autodistruggerli. Oltre a questo, tra i due fumetti c’è anche un legame. Quando ero un alieno finiva prima del successo, Wish you were here racconta invece che cosa succede dopo.

 


mercoledì 18 novembre 2015

American Writers Museum


Nella bellissima Chicago nascerà entro i prossimi 18 mesi l'American Writers Museum, il primo museo dedicato totalmente agli scrittori americani.
L'obiettivo del museo è quello di analizzare e diffondere l'influenza che i writers americani hanno avuto sullo sviluppo della cultura del paese. Il museo avrà sede sulla North Michigan Avenue, in centro città, vicino al 
Chicago Cultural Center e l'Arts Institute of Chicago.
Il progetto prevede interi padiglioni celebrativi dedicati ai più grandi scrittori, tra cui Mark Twain, Jack Kerouac, Ernest Hemingway, Malville, Edgard Allan Poe.
La fondazione che gestirà il museo ha gia stipulato convenzioni con le maggiori università americane, con le case editrici e con romanzieri americani attuali.
Saranno disponibili varie sezioni all'interno della struttura tra cui quella delle nuove forme di scrittura che si espandono tramite social network e il giornalismo digitale. Ovvio la presenza dell'area dedicata ai classici e quella per i bimbi. Mi salta in mente subito "Moby Dick".


Il museo finanziato in parte dallo Stato ha anche ricevuto finanziamenti privati per oltre 3 milioni di dollari. Le attese sono di oltre 100000 visitatori l'anno.
Penso che la letteratura americana abbia influito moltissimo sulla formazione della cultura occidentale e sono molto curioso di questa nuova apertura. 
Scrittori come Hemingway o Twain sono ormai parte integrante anche della vastissima cultura europea. 
Anche la scelta della città penso sia consona, la fantastica Chicago, città per eccellenza dell'american style è il luogo ideale. 




lunedì 16 novembre 2015

L'idea di Europa che ci evita la guerra


Quello che è successo in Francia potrebbe succedere in qualunque altro paese del mondo e soprattutto è imprevedibile.
Fermare il terrore di questi giorni è possibile ma per fare questo è necessario capire cos’è l’Isis e soprattutto capire che parte deve recitare ogni attore presente nel panorama mondiale.
Vorrei porre e pormi delle domande che a mio parere sono essenziali per cercare di affrontare la situazione.
Cos’è l’Is? Da cosa nasce? Come si finanzia?
Che ruolo hanno le superpotenze mondiali sull’esistenza della stessa? Cosa pensa di fare l’Europa?
Sono tutte domande a cui non possiamo più mostrare indifferenza. L'unica linea guida da seguire per abbattere il terrore deve essere quella di un’alleanza mondiale contro il califfato, che va abbattuto velocemente in maniera intelligente e senza rischi.
L’isis è di per se un nemico incomprensibile che non ha sede fisica, oltre al califfato, che si espande oltre i confini di un’area geografica ben definita ed ha assunto un ruolo ideologico non trascurabile. Lo stesso generale Michael Nagata, comandante americano in Medio Oriente ha dichiarato che : «Non abbiamo sconfitto le idee di Isis, in realtà non riusciamo nemmeno a comprenderle». Cerchiamo di analizzare l'Isis, come e quando nasce. In questa ricostruzione cercherò di tenere fuori teorie non verificate e accuse che tanto piacciono a complottisti da bar.
Partiamo dal presupposto che Isis nasce in Iraq e nasce da una cellula di Al Qaeda. Al Qaeda in Iraq viene sconfitta dagli americani, almeno in senso militare, ma i militanti e gli aderenti all’organizzazione si riorganizzano dopo il ritiro del 2011. Lo scontro interno al paese tra sunniti e sciiti fa si che i primi sentendosi non tutelati si rivolgono nuovamente ai jihadisti. Da li riparte Al Qaeda che cambia nome in Is e si ritrova a capo Abu Bakr Baghdadi.
Tutta la vicenda parte da una resa dei conti tra i vari gruppi che popolano l’Islam.
Il califfato pretende l’attuazione della Sharia ed ovviamente è la parte più intransigente dell’Islam. I primi nemici dell’isis sono gli arabi moderati, coloro che secondo gli aderenti si sono fatti sedurre dallo stile di vita occidentale, ovvero infedele, e quindi i responsabili dell’inquinamento della religione di Maometto.
Secondo i fanatici del Califfato non è ammessa nessuna modernizzazione all’interno della loro società e hanno una visione storica e sociale del mondo che va contro il buon senso e la ragione.
L'Isis non ha niente a che vedere con la religione e l'Islam, non è azzardato affermare che l'Isis è l'antireligione.
L’occidente ha perso delle grandi occasioni per tutelare e riscattare la voglia di libertà degli arabi moderati, che poi sono il 90% della popolazione araba. La primavera araba non è stata supportata adeguatamente ed abbiamo lasciato migliaia di persone che erano alla ricerca dela libertà nelle mani di criminali, che li hanno schiavizzato e trattato come animali. La primavera araba si è conclusa con la presa del potere da parte dei fanatici, scansando coloro che l'avevano promossa.
Nei paesi estremisti non è tollerata la minima libertà di pensiero o di parola se in contrasto con l’Islam. Siamo alla follia.
Ovviamente oltre ad una visione distorta di religione vi è anche una ricerca continua di potere. Più che una guerra santa è una guerra ed un conflitto perenne tra gruppi rivali che affermano il loro odio secolare in ragioni di supremazia politica ed economica, che non fa altro che aggiornarsi ed evolversi.
A conferma di questo c’è il numero elevatissimo di attentati che avviene nel mondo arabo.
In Europa o negli Usa, il numero di attentati compiuti lo possiamo contare sulle dita di una mano. Nel mondo arabo e in Africa gli attentati sono all’ordine del giorno.
Anche nella stessa Siria, diventata il centro del conflitto e l’occasione di popolarità per l’Isis, è in atto uno scontro tra gruppi. I sunniti vedono in Assad il protettore degli sciiti e questo ha portato alla guerra continua che si sta vivendo nella regione. Ma dove tutto è scoppiato è sicuramente la Libia. Il crocevia del califfato, la svolta si è avuta dopo la destituzione di Gheddafi.

Il Califfato ha precisi finanziatori senza cui non potrebbe tenersi in piedi. L’Arabia Saudita, il Qatar e il Kuwait sono i primi finanziatori dell’Isis. La teoria secondo cui l’America attualmente finanzi l’Isis è priva di fondamento. Di contro è certissimo che gli Usa sono in affari con i sauditi da anni e questo ha potuto portare dollari anche nelle tasche dei terroristi. Va ricordato che loro hanno un giro di milioni di dollari ricavato dalla vendita del petrolio.
Sicuramente ciò che hanno appreso dagli americani è la divulgazione di notizie e la propaganda che gli permette di reclutare adepti tra cui anche occidentali.
Basta guardare un qualsiasi video di propaganda Isis per capire che sono copie di quelli dell’esercito americano. Penso che l’errore più grande degli Stati Uniti, invece, sia quello di aver favorito lo stabilirsi degli jihadisti in Afghanistan durante la guerra contro l’Unione sovietica, legittimando questi criminali. Era la guerra fredda, e furono commessi errori. Dopo la vittoria, i jihadisti rimasero, formando il movimento dei talebani che successivamente fu sostenuto da Washington. Dopo un po’ di anni quello stesso movimento scappò di mano alla regia statunitense e questo portò all’undici settembre. Ma qui si fa inutile indietrologia.
Questa breve ed incompleta cronostoria ci porta a capire che Isis non è Islam e le prime vittime di questa idea folle sono i musulmani che contano qualcosa come 100 milioni di morti per mano del terrorismo islamico dagli anni novanta ad oggi.
Detto questo allora si dovrebbe capire che per procedere all'emarginazione di questi folli occorre un'allenza con il mondo arabo, elemento essenziale per combattere il fenomeno. Le migliaia di profughi che scappano dalle guerre sante di questi senza cervello sono vittime e non alleati di Isis.
La presa di posizione di quasi tutti gli Imam europei contro queste barbarie e le campagne tramite social network lanciate dai giovani musulmani rendono l'idea, non ultima #notinmyname con cui si prendono le distanze dagli attentati.
Oggi chi tenta in maniera subdola di confondere i terroristi con le comunità islamiche fa un grande torto a questi ultimi ed anche un grande regalo all'Isis che mira alle divisioni interne ed all'indebolimento delle condizioni di integrazione degli immigrati.
Dobbiamo chiedere ed ottenere un maggiore coinvolgimento delle comunità musulmane europee e dare mezzi e forza ai moderati e alle idee progressiste della penisola araba. Questa penso sia l'unica via da seguire per provare a sistemare questo eterno conflitto che rischia di risolversi in un nulla di fatto.
Solo dopo che avremo trovato solido alleato il popolo arabo potremmo tentare di rinchiudere il Califfato dentro confini ben definiti, possiamo isolare ed eventualmente provare un azione militare, che oggi deve essere assolutamente evitata. Questa guerra va combattuta con l'intelligence e non con i bombardamenti a tappeto.
Va evitata assolutamente la morte di civili inermi e senza colpe, va evitato l'odio contro l'occidente troppe volte fomentato  da noi stessi. Non possiamo gettare benzina sul fuoco e creare condizioni favorevoli all'espansione dell 'Isis, questa è follia.
Vorrei infine parlare del ruolo che dovrebbe assume l'Europa.
Sicuramente una coalizione a guida Usa o Russia non sarà accettata di buon grado dai paesi arabi per semplici motivi. I russi sono i più tenaci alleati di Assad e i finanziatori di una parte di questa lotta fraticida tutta araba, gli sciiti. Gli Americani hanno attirato troppo odio verso se stessi, nessuno dimentica le barbarie di George Bush, e le sue guerre preventive, finalmente archiaviate come errore anche dal popolo d'oltre oceano.
La regia deve essere a guida europea, perche il vecchio continente ha le giuste caratteristiche per risolvere la crisi ed evitare lo scoppio di un nuovo conflitto che sarebbe tragico per tutti.
Cosa ci manca allora? Ci manca la vera unione, siamo troppo frammentati e senza una visione completa da portare avanti. Siamo divisi su tutto, ci impantaniamo su piccole cose e tendiamo a rievocare vecchie storie romantiche e dimenticati conflitti tra Stati. Dobbiamo per una volta, mettere da parte tutte queste cose e dimostrare maturità politica, assumendo la guida di una grande coalizione sotto l'egidia Onu che dia via ad una trattativa veloce e risolutiva.
Dobbiamo raccontarci l'Europa, come afferma in un pezzo sul Corriere di ieri Alessandro Baricco. Dobbiamo unirci per le mille cose che ci accomunano e non dividerci per cose che nemmeno sentiamo nostre.
Dobbiamo farlo subito perche lo scoppio di una guerra senza fine è dietro l'angolo.

Il sultano e San Francesco

In questi tristi giorni in cui Oriana Fallaci viene citata a sproposito da chi cerca di legittimare ad ogni costo la guerra, io preferisco Tiziano Terzani e i suoi scritti. Allo skyline che la signora ammirava dalla sua calda casa di Nyc, io preferisco la baita dell'Himalaya dello scrittore fiorentino, profondo conoscitore delle menti umane ed ineguagliabile esperto del mondo orientale.
Ecco perche riporto sul blog la lettera che Terzani invió alla Fallaci nel 2011 dopo "La rabbia e l'orgoglio" e l'attentato alle twin towers. 
Non occorre citare altro, davanti alla grandezza di Terzani è necessario bloccare le parole e leggere.





Il Sultano e San Francesco
Oriana, dalla finestra di una casa poco lontana da quella in cui anche tu sei nata, guardo le lame austere ed eleganti dei cipressi contro il cielo e ti penso a guardare, dalle tue finestre a New York, il panorama dei grattacieli da cui ora mancano le Torri Gemelle. Mi torna in mente un pomeriggio di tanti, tantissimi anni fa quando assieme facemmo una lunga passeggiata per le stradine di questi nostri colli argentati dagli ulivi. Io mi affacciavo, piccolo, alla professione nella quale tu eri già grande e tu proponesti di scambiarci delle «Lettere da due mondi diversi»: io dalla Cina dell’ immediato dopo-Mao in cui andavo a vivere, tu dall’ America. Per colpa mia non lo facemmo. Ma è in nome di quella tua generosa offerta di allora, e non certo per coinvolgerti ora in una corrispondenza che tutti e due vogliamo evitare, che mi permetto di scriverti. Davvero mai come ora, pur vivendo sullo stesso pianeta, ho l’ impressione di stare in un mondo assolutamente diverso dal tuo.
Ti scrivo anche – e pubblicamente per questo – per non far sentire troppo soli quei lettori che forse, come me, sono rimasti sbigottiti dalle tue invettive, quasi come dal crollo delle due Torri. Là morivano migliaia di persone e con loro il nostro senso di sicurezza; nelle tue parole sembra morire il meglio della testa umana – la ragione; il meglio del cuore – la compassione. Il tuo sfogo mi ha colpito, ferito e mi ha fatto pensare a Karl Kraus. «Chi ha qualcosa da dire si faccia avanti e taccia», scrisse, disperato dal fatto che, dinanzi all’ indicibile orrore della Prima Guerra Mondiale, alla gente non si fosse paralizzata la lingua. Al contrario, gli si era sciolta, creando tutto attorno un assurdo e confondente chiacchierio. Tacere per Kraus significava riprendere fiato, cercare le parole giuste, riflettere prima di esprimersi. Lui usò di quel consapevole silenzio per scrivere Gli ultimi giorni dell’ umanità, un’ opera che sembra essere ancora di un’ inquietante attualità. Pensare quel che pensi e scriverlo è un tuo diritto. Il problema è però che, grazie alla tua notorietà, la tua brillante lezione di intolleranza arriva ora anche nelle scuole, influenza tanti giovani e questo mi inquieta. Il nostro di ora è un momento di straordinaria importanza. L’ orrore indicibile è appena cominciato, ma è ancora possibile fermarlo facendo di questo momento una grande occasione di ripensamento. È un momento anche di enorme responsabilità perché certe concitate parole, pronunciate dalle lingue sciolte, servono solo a risvegliare i nostri istinti più bassi, ad aizzare la bestia dell’ odio che dorme in ognuno di noi ed a provocare quella cecità delle passioni che rende pensabile ogni misfatto e permette, a noi come ai nostri nemici, il suicidarsi e l’ uccidere. «Conquistare le passioni mi pare di gran lunga più difficile che conquistare il mondo con la forza delle armi. Ho ancora un difficile cammino dinanzi a me», scriveva nel 1925 quella bell’ anima di Gandhi. Ed aggiungeva: «Finché l’ uomo non si metterà di sua volontà all’ ultimo posto fra le altre creature sulla terra, non ci sarà per lui alcuna salvezza». E tu, Oriana, mettendoti al primo posto di questa crociata contro tutti quelli che non sono come te o che ti sono antipatici, credi davvero di offrirci salvezza? La salvezza non è nella tua rabbia accalorata, né nella calcolata campagna militare chiamata, tanto per rendercela più accettabile, «Libertà duratura».
O tu pensi davvero che la violenza sia il miglior modo per sconfiggere la violenza? Da che mondo è mondo non c’ è stata ancora la guerra che ha messo fine a tutte le guerre. Non lo sarà nemmen questa. Quel che ci sta succedendo è nuovo. Il mondo ci sta cambiando attorno. Cambiamo allora il nostro modo di pensare, il nostro modo di stare al mondo. È una grande occasione. Non perdiamola: rimettiamo in discussione tutto, immaginiamoci un futuro diverso da quello che ci illudevamo d’ aver davanti prima dell’ 11 settembre e soprattutto non arrendiamoci alla inevitabilità di nulla, tanto meno all’ inevitabilità della guerra come strumento di giustizia o semplicemente di vendetta. Le guerre sono tutte terribili. Il moderno affinarsi delle tecniche di distruzione e di morte le rendono sempre più tali. Pensiamoci bene: se noi siamo disposti a combattere la guerra attuale con ogni arma a nostra disposizione, compresa quella atomica, come propone il Segretario alla Difesa americano, allora dobbiamo aspettarci che anche i nostri nemici, chiunque essi siano, saranno ancor più determinati di prima a fare lo stesso, ad agire senza regole, senza il rispetto di nessun principio. Se alla violenza del loro attacco alle Torri Gemelle noi risponderemo con una ancor più terribile violenza – ora in Afghanistan, poi in Iraq, poi chi sa dove -, alla nostra ne seguirà necessariamente una loro ancora più orribile e poi un’ altra nostra e così via. Perché non fermarsi prima? Abbiamo perso la misura di chi siamo, il senso di quanto fragile ed interconnesso sia il mondo in cui viviamo, e ci illudiamo di poter usare una dose, magari «intelligente», di violenza per mettere fine alla terribile violenza altrui. Cambiamo illusione e, tanto per cominciare, chiediamo a chi fra di noi dispone di armi nucleari, armi chimiche e armi batteriologice – Stati Uniti in testa – d’ impegnarsi solennemente con tutta l’umanità a non usarle mai per primo, invece di ricordarcene minacciosamente la disponibilità. Sarebbe un primo passo in una nuova direzione. Non solo questo darebbe a chi lo fa un vantaggio morale – di per sé un’ arma importante per il futuro -, ma potrebbe anche disinnescare l’ orrore indicibile ora attivato dalla reazione a catena della vendetta. In questi giorni ho ripreso in mano un bellissimo libro (peccato che non sia ancora in italiano) di un vecchio amico, uscito due anni fa in Germania. Il libro si intitola Die Kunst, nicht regiert zu werden: ethische Politik von Sokrates bis Mozart (L’ arte di non essere governati: l’ etica politica da Socrate a Mozart). L’ autore è Ekkehart Krippendorff, che ha insegnato per anni a Bologna prima di tornare all’ Università di Berlino. La affascinante tesi di Krippendorff è che la politica, nella sua espressione più nobile, nasce dal superamento della vendetta e che la cultura occidentale ha le sue radici più profonde in alcuni miti, come quello di Caino e quello delle Erinni, intesi da sempre a ricordare all’ uomo la necessità di rompere il circolo vizioso della vendetta per dare origine alla civiltà. Caino uccide il fratello, ma Dio impedisce agli uomini di vendicare Abele e, dopo aver marchiato Caino – un marchio che è anche una protezione -, lo condanna all’ esilio dove quello fonda la prima città.
La vendetta non è degli uomini, spetta a Dio. Secondo Krippendorff il teatro, da Eschilo a Shakespeare, ha avuto una funzione determinante nella formazione dell’ uomo occidentale perché col suo mettere sulla scena tutti i protagonisti di un conflitto, ognuno col suo punto di vista, i suoi ripensamenti e le sue possibili scelte di azione, il teatro è servito a far riflettere sul senso delle passioni e sulla inutilità della violenza che non raggiunge mai il suo fine. Purtroppo, oggi, sul palcoscenico del mondo noi occidentali siamo insieme i soli protagonisti ed i soli spettatori, e così, attraverso le nostre televisioni ed i nostri giornali, non ascoltiamo che le nostre ragioni, non proviamo che il nostro dolore. A te, Oriana, i kamikaze non interessano. A me tanto invece. Ho passato giorni in Sri Lanka con alcuni giovani delle «Tigri Tamil», votati al suicidio. Mi interessano i giovani palestinesi di «Hamas» che si fanno saltare in aria nelle pizzerie israeliane. Un po’ di pietà sarebbe forse venuta anche a te se in Giappone, sull’ isola di Kyushu, tu avessi visitato Chiran, il centro dove i primi kamikaze vennero addestrati e tu avessi letto le parole, a volte poetiche e tristissime, scritte segretamente prima di andare, riluttanti, a morire per la bandiera e per l’ Imperatore. I kamikaze mi interessano perché vorrei capire che cosa li rende così disposti a quell’ innaturale atto che è il suicidio e che cosa potrebbe fermarli. Quelli di noi a cui i figli – fortunatamente – sono nati, si preoccupano oggi moltissimo di vederli bruciare nella fiammata di questo nuovo, dilagante tipo di violenza di cui l’ ecatombe nelle Torri Gemelle potrebbe essere solo un episodio. Non si tratta di giustificare, di condonare, ma di capire.
Capire, perché io sono convinto che il problema del terrorismo non si risolverà uccidendo i terroristi, ma eliminando le ragioni che li rendono tali. Niente nella storia umana è semplice da spiegare e fra un fatto ed un altro c’è raramente una correlazione diretta e precisa. Ogni evento, anche della nostra vita, è il risultato di migliaia di cause che producono, assieme a quell’ evento, altre migliaia di effetti, che a loro volta sono le cause di altre migliaia di effetti. L’ attacco alle Torri Gemelle è uno di questi eventi: il risultato di tanti e complessi fatti antecedenti. Certo non è l’ atto di «una guerra di religione» degli estremisti musulmani per la conquista delle nostre anime, una Crociata alla rovescia, come la chiami tu, Oriana. Non è neppure «un attacco alla libertà ed alla democrazia occidentale», come vorrebbe la semplicistica formula ora usata dai politici.
Un vecchio accademico dell’ Università di Berkeley, un uomo certo non sospetto di anti-americanismo o di simpatie sinistrorse dà di questa storia una interpretazione completamente diversa. «Gli assassini suicidi dell’ 11 settembre non hanno attaccato l’ America: hanno attaccato la politica estera americana», scrive Chalmers Johnson nel numero di The Nation del 15 ottobre. Per lui, autore di vari libri – l’ ultimo, Blowback, contraccolpo, uscito l’ anno scorso (in Italia edito da Garzanti ndr) ha del profetico – si tratterebbe appunto di un ennesimo «contraccolpo» al fatto che, nonostante la fine della Guerra Fredda e lo sfasciarsi dell’ Unione Sovietica, gli Stati Uniti hanno mantenuto intatta la loro rete imperiale di circa 800 installazioni militari nel mondo. Con una analisi che al tempo della Guerra Fredda sarebbe parsa il prodotto della disinformazione del Kgb, Chalmers Johnson fa l’ elenco di tutti gli imbrogli, complotti, colpi di Stato, delle persecuzioni, degli assassinii e degli interventi a favore di regimi dittatoriali e corrotti nei quali gli Stati Uniti sono stati apertamente o clandestinamente coinvolti in America Latina, in Africa, in Asia e nel Medio Oriente dalla fine della Seconda Guerra Mondiale ad oggi.
Il «contraccolpo» dell’ attacco alle Torri Gemelle ed al Pentagono avrebbe a che fare con tutta una serie di fatti di questo tipo: fatti che vanno dal colpo di Stato ispirato dalla Cia contro Mossadeq nel 1953, seguito dall’ installazione dello Shah in Iran, alla Guerra del Golfo, con la conseguente permanenza delle truppe americane nella penisola araba, in particolare l’ Arabia Saudita dove sono i luoghi sacri dell’ Islam. Secondo Johnson sarebbe stata questa politica americana «a convincere tanta brava gente in tutto il mondo islamico che gli Stati Uniti sono un implacabile nemico». Così si spiegherebbe il virulento anti-americanismo diffuso nel mondo musulmano e che oggi tanto sorprende gli Stati Uniti ed i loro alleati. Esatta o meno che sia l’ analisi di Chalmers Johnson, è evidente che al fondo di tutti i problemi odierni degli americani e nostri nel Medio Oriente c’ è, a parte la questione israeliano-palestinese, la ossessiva preoccupazione occidentale di far restare nelle mani di regimi «amici», qualunque essi fossero, le riserve petrolifere della regione. Questa è stata la trappola. L’ occasione per uscirne è ora. Perché non rivediamo la nostra dipendenza economica dal petrolio? Perché non studiamo davvero, come avremmo potuto già fare da una ventina d’ anni, tutte le possibili fonti alternative di energia? Ci eviteremmo così d’ essere coinvolti nel Golfo con regimi non meno repressivi ed odiosi dei talebani; ci eviteremmo i sempre più disastrosi «contraccolpi» che ci verranno sferrati dagli oppositori a quei regimi, e potremmo comunque contribuire a mantenere un migliore equilibrio ecologico sul pianeta. Magari salviamo così anche l’ Alaska che proprio un paio di mesi fa è stata aperta ai trivellatori, guarda caso dal presidente Bush, le cui radici politiche – tutti lo sanno – sono fra i petrolieri.
A proposito del petrolio, Oriana, sono certo che anche tu avrai notato come, con tutto quel che si sta scrivendo e dicendo sull’ Afghanistan, pochissimi fanno notare che il grande interesse per questo paese è legato al fatto d’ essere il passaggio obbligato di qualsiasi conduttura intesa a portare le immense risorse di metano e petrolio dell’ Asia Centrale (vale a dire di quelle repubbliche ex-sovietiche ora tutte, improvvisamente, alleate con gli Stati Uniti) verso il Pakistan, l’India e da lì nei paesi del Sud Est Asiatico. Il tutto senza dover passare dall’ Iran. Nessuno in questi giorni ha ricordato che, ancora nel 1997, due delegazioni degli «orribili» talebani sono state ricevute a Washington (anche al Dipartimento di Stato) per trattare di questa faccenda e che una grande azienda petrolifera americana, la Unocal, con la consulenza niente di meno che di Henry Kissinger, si è impegnata col Turkmenistan a costruire quell’ oleodotto attraverso l’ Afghanistan. È dunque possibile che, dietro i discorsi sulla necessità di proteggere la libertà e la democrazia, l’ imminente attacco contro l’ Afghanistan nasconda anche altre considerazioni meno altisonanti, ma non meno determinanti. È per questo che nell’ America stessa alcuni intellettuali cominciano a preoccuparsi che la combinazione fra gli interessi dell’ industria petrolifera con quelli dell’ industria bellica – combinazione ora prominentemente rappresentata nella compagine al potere a Washington – finisca per determinare in un unico senso le future scelte politiche americane nel mondo e per limitare all’ interno del paese, in ragione dell’ emergenza anti-terrorismo, i margini di quelle straordinarie libertà che rendono l’ America così particolare. Il fatto che un giornalista televisivo americano sia stato redarguito dal pulpito della Casa Bianca per essersi chiesto se l’ aggettivo «codardi», usato da Bush, fosse appropriato per i terroristi-suicidi, così come la censura di certi programmi e l’ allontanamento da alcuni giornali, di collaboratori giudicati non ortodossi, hanno aumentato queste preoccupazioni. L’ aver diviso il mondo in maniera – mi pare – «talebana», fra «quelli che stanno con noi e quelli contro di noi», crea ovviamente i presupposti per quel clima da caccia alle streghe di cui l’ America ha già sofferto negli anni Cinquanta col maccartismo, quando tanti intellettuali, funzionari di Stato ed accademici, ingiustamente accusati di essere comunisti o loro simpatizzanti, vennero perseguitati, processati e in moltissimi casi lasciati senza lavoro.
Il tuo attacco, Oriana – anche a colpi di sputo – alle «cicale» ed agli intellettuali «del dubbio» va in quello stesso senso. Dubitare è una funzione essenziale del pensiero; il dubbio è il fondo della nostra cultura. Voler togliere il dubbio dalle nostre teste è come volere togliere l’ aria ai nostri polmoni. Io non pretendo affatto d’ aver risposte chiare e precise ai problemi del mondo (per questo non faccio il politico), ma penso sia utile che mi si lasci dubitare delle risposte altrui e mi si lasci porre delle oneste domande. In questi tempi di guerra non deve essere un crimine parlare di pace. Purtroppo anche qui da noi, specie nel mondo «ufficiale» della politica e dell’ establishment mediatico, c’ è stata una disperante corsa alla ortodossia. È come se l’ America ci mettesse già paura. Capita così di sentir dire in televisione a un post-comunista in odore di una qualche carica nel suo partito, che il soldato Ryan è un importante simbolo di quell’ America che per due volte ci ha salvato. Ma non c’ era anche lui nelle marce contro la guerra americana in Vietnam?
Per i politici – me ne rendo conto – è un momento difficilissimo. Li capisco e capisco ancor più l’ angoscia di qualcuno che, avendo preso la via del potere come una scorciatoia per risolvere un piccolo conflitto di interessi terreni si ritrova ora alle prese con un enorme conflitto di interessi divini, una guerra di civiltà combattuta in nome di Iddio e di Allah. No. Non li invidio, i politici. Siamo fortunati noi, Oriana. Abbiamo poco da decidere e non trovandoci in mezzo ai flutti del fiume, abbiamo il privilegio di poter stare sulla riva a guardare la corrente. Ma questo ci impone anche grandi responsabilità come quella, non facile, di andare dietro alla verità e di dedicarci soprattutto «a creare campi di comprensione, invece che campi di battaglia», come ha scritto Edward Said, professore di origine palestinese ora alla Columbia University, in un saggio sul ruolo degli intellettuali uscito proprio una settimana prima degli attentati in America. Il nostro mestiere consiste anche nel semplificare quel che è complicato. Ma non si può esagerare, Oriana, presentando Arafat come la quintessenza della doppiezza e del terrorismo ed indicando le comunità di immigrati musulmani da noi come incubatrici di terroristi.
Le tue argomentazioni verranno ora usate nelle scuole contro quelle buoniste, da libro Cuore, ma tu credi che gli italiani di domani, educati a questo semplicismo intollerante, saranno migliori? Non sarebbe invece meglio che imparassero, a lezione di religione, anche che cosa è l’ Islam? Che a lezione di letteratura leggessero anche Rumi o il da te disprezzato Omar Kayan? Non sarebbe meglio che ci fossero quelli che studiano l’ arabo, oltre ai tanti che già studiano l’ inglese e magari il giapponese? Lo sai che al ministero degli Esteri di questo nostro paese affacciato sul Mediterraneo e sul mondo musulmano, ci sono solo due funzionari che parlano arabo? Uno attualmente è, come capita da noi, console ad Adelaide in Australia. Mi frulla in testa una frase di Toynbee: «Le opere di artisti e letterati hanno vita più lunga delle gesta di soldati, di statisti e mercanti. I poeti ed i filosofi vanno più in là degli storici. Ma i santi e i profeti valgono di più di tutti gli altri messi assieme». Dove sono oggi i santi ed i profeti? Davvero, ce ne vorrebbe almeno uno! Ci rivorrebbe un San Francesco. Anche i suoi erano tempi di crociate, ma il suo interesse era per «gli altri», per quelli contro i quali combattevano i crociati. Fece di tutto per andarli a trovare. Ci provò una prima volta, ma la nave su cui viaggiava naufragò e lui si salvò a malapena. Ci provò una seconda volta, ma si ammalò prima di arrivare e tornò indietro. Finalmente, nel corso della quinta crociata, durante l’ assedio di Damietta in Egitto, amareggiato dal comportamento dei crociati («vide il male ed il peccato»), sconvolto da una spaventosa battaglia di cui aveva visto le vittime, San Francesco attraversò le linee del fronte. Venne catturato, incatenato e portato al cospetto del Sultano. Peccato che non c’ era ancora la Cnn – era il 1219 – perché sarebbe interessantissimo rivedere oggi il filmato di quell’ incontro. Certo fu particolarissimo perché, dopo una chiacchierata che probabilmente andò avanti nella notte, al mattino il Sultano lasciò che San Francesco tornasse, incolume, all’ accampamento dei crociati. Mi diverte pensare che l’ uno disse all’ altro le sue ragioni, che San Francesco parlò di Cristo, che il Sultano lesse passi del Corano e che alla fine si trovarono d’ accordo sul messaggio che il poverello di Assisi ripeteva ovunque: «Ama il prossimo tuo come te stesso». Mi diverte anche immaginare che, siccome il frate sapeva ridere come predicare, fra i due non ci fu aggressività e che si lasciarono di buon umore sapendo che comunque non potevano fermare la storia. Ma oggi? Non fermarla può voler dire farla finire.
Ti ricordi, Oriana, Padre Balducci che predicava a Firenze quando noi eravamo ragazzi? Riguardo all’ orrore dell’ olocausto atomico pose una bella domanda: «La sindrome da fine del mondo, l’ alternativa fra essere e non essere, hanno fatto diventare l’ uomo più umano?». A guardarsi intorno la risposta mi pare debba essere «No». Ma non possiamo rinunciare alla speranza. «Mi dica, che cosa spinge l’ uomo alla guerra?», chiedeva Albert Einstein nel 1932 in una lettera a Sigmund Freud. «È possibile dirigere l’ evoluzione psichica dell’ uomo in modo che egli diventi più capace di resistere alla psicosi dell’ odio e della distruzione?» Freud si prese due mesi per rispondergli. La sua conclusione fu che c’ era da sperare: l’ influsso di due fattori – un atteggiamento più civile, ed il giustificato timore degli effetti di una guerra futura – avrebbe dovuto mettere fine alle guerre in un prossimo avvenire. Giusto in tempo la morte risparmiò a Freud gli orrori della Seconda Guerra Mondiale. Non li risparmiò invece ad Einstein, che divenne però sempre più convinto della necessità del pacifismo.Nel 1955, poco prima di morire, dalla sua casetta di Princeton in America dove aveva trovato rifugio, rivolse all’ umanità un ultimo appello per la sua sopravvivenza: «Ricordatevi che siete uomini e dimenticatevi tutto il resto».
Per difendersi, Oriana, non c’ è bisogno di offendere (penso ai tuoi sputi ed ai tuoi calci). Per proteggersi non c’ è bisogno d’ ammazzare. Ed anche in questo possono esserci delle giuste eccezioni. M’ è sempre piaciuta nei Jataka, le storie delle vite precedenti di Buddha, quella in cui persino lui, epitome della non violenza, in una incarnazione anteriore uccide. Viaggia su una barca assieme ad altre 500 persone. Lui, che ha già i poteri della preveggenza, «vede» che uno dei passeggeri, un brigante, sta per ammazzare tutti e derubarli e lui lo previene buttandolo nell’ acqua ad affogare per salvare gli altri. Essere contro la pena di morte non vuol dire essere contro la pena in genere ed in favore della libertà di tutti i delinquenti. Ma per punire con giustizia occorre il rispetto di certe regole che sono il frutto dell’ incivilimento, occorre il convincimento della ragione, occorrono delle prove.
I gerarchi nazisti furono portati dinanzi al Tribunale di Norimberga; quelli giapponesi responsabili di tutte le atrocità commesse in Asia, furono portati dinanzi al Tribunale di Tokio prima di essere, gli uni e gli altri, dovutamente impiccati. Le prove contro ognuno di loro erano schiaccianti. Ma quelle contro Osama Bin Laden? «Noi abbiamo tutte le prove contro Warren Anderson, presidente della Union Carbide. Aspettiamo che ce lo estradiate», scrive in questi giorni dall’ India agli americani, ovviamente a mo’ di provocazione, Arundhati Roy, la scrittrice de Il Dio delle piccole cose: una come te, Oriana, famosa e contestata, amata ed odiata. Come te, sempre pronta a cominciare una rissa, la Roy ha usato della discussione mondiale su Osama Bin Laden per chiedere che venga portato dinanzi ad un tribunale indiano il presidente americano della Union Carbide responsabile dell’ esplosione nel 1984 nella fabbrica chimica di Bhopal in India che fece 16.000 morti. Un terrorista anche lui? Dal punto di vista di quei morti forse sì. L’ immagine del terrorista che ora ci viene additata come quella del «nemico» da abbattere è il miliardario saudita che, da una tana nelle montagne dell’ Afghanistan, ordina l’ attacco alle Torri Gemelle; è l’ ingegnere-pilota, islamista fanatico, che in nome di Allah uccide se stesso e migliaia di innocenti; è il ragazzo palestinese che con una borsetta imbottita di dinamite si fa esplodere in mezzo ad una folla. Dobbiamo però accettare che per altri il «terrorista» possa essere l’ uomo d’ affari che arriva in un paese povero del Terzo Mondo con nella borsetta non una bomba, ma i piani per la costruzione di una fabbrica chimica che, a causa di rischi di esplosione ed inquinamento, non potrebbe mai essere costruita in un paese ricco del Primo Mondo. E la centrale nucleare che fa ammalare di cancro la gente che ci vive vicino? E la diga che disloca decine di migliaia di famiglie? O semplicemente la costruzione di tante piccole industrie che cementificano risaie secolari, trasformando migliaia di contadini in operai per produrre scarpe da ginnastica o radioline, fino al giorno in cui è più conveniente portare quelle lavorazioni altrove e le fabbriche chiudono, gli operai restano senza lavoro e non essendoci più i campi per far crescere il riso, muoiono di fame? Questo non è relativismo. Voglio solo dire che il terrorismo, come modo di usare la violenza, può esprimersi in varie forme, a volte anche economiche, e che sarà difficile arrivare ad una definizione comune del nemico da debellare.
I governi occidentali oggi sono uniti nell’ essere a fianco degli Stati Uniti; pretendono di sapere esattamente chi sono i terroristi e come vanno combattuti. Molto meno convinti però sembrano i cittadini dei vari paesi. Per il momento non ci sono state in Europa dimostrazioni di massa per la pace; ma il senso del disagio è diffuso così come è diffusa la confusione su quel che si debba volere al posto della guerra. «Dateci qualcosa di più carino del capitalismo», diceva il cartello di un dimostrante in Germania. «Un mondo giusto non è mai NATO», c’ era scritto sullo striscione di alcuni giovani che marciavano giorni fa a Bologna. Già. Un mondo «più giusto» è forse quel che noi tutti, ora più che mai, potremmo pretendere. Un mondo in cui chi ha tanto si preoccupa di chi non ha nulla; un mondo retto da principi di legalità ed ispirato ad un po’ più di moralità. La vastissima, composita alleanza che Washington sta mettendo in piedi, rovesciando vecchi schieramenti e riavvicinando paesi e personaggi che erano stati messi alla gogna, solo perché ora tornano comodi, è solo l’ ennesimo esempio di quel cinismo politico che oggi alimenta il terrorismo in certe aree del mondo e scoraggia tanta brava gente nei nostri paesi.
Gli Stati Uniti, per avere la maggiore copertura possibile e per dare alla guerra contro il terrorismo un crisma di legalità internazionale, hanno coinvolto le Nazioni Unite, eppure gli Stati Uniti stessi rimangono il paese più reticente a pagare le proprie quote al Palazzo di Vetro, sono il paese che non ha ancora ratificato né il trattato costitutivo della Corte Internazionale di Giustizia, né il trattato per la messa al bando delle mine anti-uomo e tanto meno quello di Kyoto sulle mutazioni climatiche. L’ interesse nazionale americano ha la meglio su qualsiasi altro principio. Per questo ora Washington riscopre l’ utilità del Pakistan, prima tenuto a distanza per il suo regime militare e punito con sanzioni economiche a causa dei suoi esperimenti nucleari; per questo la Cia sarà presto autorizzata di nuovo ad assoldare mafiosi e gangster cui affidare i «lavoretti sporchi» di liquidare qua e là nel mondo le persone che la Cia stessa metterà sulla sua lista nera. Eppure un giorno la politica dovrà ricongiungersi con l’ etica se vorremo vivere in un mondo migliore: migliore in Asia come in Africa, a Timbuctu come a Firenze. A proposito, Oriana. Anche a me ogni volta che, come ora, ci passo, questa città mi fa male e mi intristisce.
Tutto è cambiato, tutto è involgarito. Ma la colpa non è dell’ Islam o degli immigrati che ci si sono installati. Non son loro che han fatto di Firenze una città bottegaia, prostituita al turismo! È successo dappertutto. Firenze era bella quando era più piccola e più povera. Ora è un obbrobrio, ma non perché i musulmani si attendano in Piazza del Duomo, perché i filippini si riuniscono il giovedì in Piazza Santa Maria Novella e gli albanesi ogni giorno attorno alla stazione. È così perché anche Firenze s’ è «globalizzata», perché non ha resistito all’ assalto di quella forza che, fino ad ieri, pareva irresistibile: la forza del mercato. Nel giro di due anni da una bella strada del centro in cui mi piaceva andare a spasso è scomparsa una libreria storica, un vecchio bar, una tradizionalissima farmacia ed un negozio di musica. Per far posto a che? A tanti negozi di moda. Credimi, anch’ io non mi ci ritrovo più. Per questo sto, anch’ io ritirato, in una sorta di baita nell’ Himalaya indiana dinanzi alle più divine montagne del mondo. Passo ore, da solo, a guardarle, lì maestose ed immobili, simbolo della più grande stabilità, eppure anche loro, col passare delle ore, continuamente diverse e impermanenti come tutto in questo mondo. La natura è una grande maestra, Oriana, e bisogna ogni tanto tornarci a prendere lezione. Tornaci anche tu. Chiusa nella scatola di un appartamento dentro la scatola di un grattacielo, con dinanzi altri grattacieli pieni di gente inscatolata, finirai per sentirti sola davvero; sentirai la tua esistenza come un accidente e non come parte di un tutto molto, molto più grande di tutte le torri che hai davanti e di quelle che non ci sono più. Guarda un filo d’ erba al vento e sentiti come lui. Ti passerà anche la rabbia. Ti saluto, Oriana e ti auguro di tutto cuore di trovare pace. Perché se quella non è dentro di noi non sarà mai da nessuna parte. Il Sultano e San Francesco. Non possiamo rinunciare alla speranza.