martedì 5 novembre 2013

Dylan Time

Era un atto di fede e l’ho compiuto nella maniera migliore. Ieri sera il concerto di Bob Dylan è stato superlativo e lo diventa ancora di più riflettendoci a freddo. Ho sentito dal vivo la voce che mi ha accompagnato per vent’anni verso la notte, nei momenti di solitudine come in quelli felici. Bob Dylan per me è un eroe e ieri la carica che mi  sprigionava quando partiva ogni testo è inspiegabile. L’ho ascoltato in religioso silenzio, perché così va ascoltato il menestrello americano, senza scomposte reazioni e senza inutili sussulti di gioia. Bob Dylan è un preghiera e merita di essere recitata nell’assoluta quiete del momento. Sono irriconoscibili alcuni testi “recitati” dal vivo, anche per chi è cresciuto a pane e Dylan, ha il potere magico di far diventare “Blowin in the wind” un pezzo jazz e “What good am I?” un canzone dance, fa parte del personaggio, o lo si ama così com’è o non lo si può apprezzare. Bob non conosce amore di sorta o vie di mezzo, è semplicemente così. E’ entrato direttamente cantando ed è uscito dopo due ore nella stessa identica maniera, senza nemmeno accennare un saluto o un discorso, il copione non lo prevede. E’ stato semplicemente il Re della scena con la sua tipica postura con gambe aperte e mani in tasca, ha realizzato il suo spettacolo esibendosi a tratti tramite il linguaggio del corpo, ogni parola era accompagnata da un’espressione o da un movimento.
Ho osservato bene il pubblico ed oltre ad un giusto numero di giovani vi erano un grande numero di over 50/60, quelli che Hurricane e Blowin l’hanno vissuta dal vivo, quelli che lo cantavano durante le manifestazioni contro il Vietnam e quelli che lo ascoltavano nei loro on the road. Signori Bob Dylan è stato l’emblema di un’America che era opportunità e che voleva continuamente cambiare. Un’America che non c’è più.
Il Teatro è stato il tocco in più, ha creato la giusta atmosfera, quella intimità che nessun palazzetto può riservarti. Luci soffuse e musica al giusto tono, più che cantare in alcuni pezzi sembrava che stesse recitando.
Mi è piaciuta tantissimo “Desolation Road” reinterpretata in Italia da Fabrizio De Andrè con la sua “Via della Povertà”, che canzone pazzesca.
Ultima piccola parentesi, sentire l’armonica da cinquanta metri mi ha fatto venire i brividi.
Che il Dio del rock ce lo conservi per un lungo tempo.

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