Tratto da "Il corriere della Sera del 14/01/2015
La mentalità jihadista in un reportage di Tiziano Terzani dal Pakistan del 2001 con i dubbi dell’autore sull’intervento militare contro l’Afghanistan dei talebani di Tiziano Terzani
Ero
andato al bazar perché volevo vedere quanti avrebbero partecipato alla
manifestazione pro talebani che si tiene di routine nella vecchia
Peshawar dopo la preghiera di mezzogiorno, ma un amico mi aveva
avvertito che il numero dei dimostranti non vuol dire ormai nulla. «I
duri non marciano più, si arruolano. Vai nei villaggi», m’aveva detto.
L’ho fatto e per un giorno e una notte, in compagnia di due studenti
universitari, ho gettato uno sguardo su un mondo la cui distanza dal
nostro non è misurabile in chilometri, ma in secoli: un mondo che
dobbiamo capire a fondo se vogliamo evitare la catastrofe che ci sta
davanti. (...)
«Mio padre è sempre stato un liberale
e un moderato, ma dopo i bombardamenti anche lui parla come un talebano
e sostiene che non c’è alternativa alla jihad», diceva uno dei miei
studenti, mentre lasciavamo Peshawar. La strada correva fra piantagioni
di canna da zucchero. Sui muri bianchi che dividono i campi, spiccavano
grandi slogan. «La jihad è il dovere della nazione», «Un amico degli
americani è un traditore», «La jihad durerà fino al giorno del
giudizio». Il più strano era: «Il profeta ha ordinato la jihad contro
l’India e l’America». Nessuno qui si chiede se al tempo del Profeta,
1400 anni fa, l’India e l’America esistessero già. Ma è appunto questa
accecante mistura di ignoranza e di fede a essere esplosiva e a creare
quella devozione alla guerra e alla morte con cui abbiamo deciso, forse
un po’ troppo avventatamente, di venirci a confrontare.
«Quando uno dei nostri salta su una mina
o viene dilaniato da una bomba, prendiamo i pezzi che restano, i
brandelli di carne, le ossa rotte, mettiamo tutto nella stoffa di un
turbante e seppelliamo quel fagotto lì, nella terra. Noi sappiamo
morire, ma gli americani? Gli inglesi? Sanno morire così?». Dal fondo
della stanza un uomo barbuto apre un giornale in Urdu e legge una breve
notizia in cui si dice che anche l’Italia si è offerta di mandare navi e
soldati: «...E voi italiani allora? Siete pronti a morire così? Perché
anche voi venite qui a uccidere la nostra gente, a distruggere le nostre
moschee? Che direste se noi venissimo a distruggere le vostre chiese,
se venissimo a radere al suolo il vostro Vaticano?».
Siamo in una sorta di rudimentalissimo ambulatorio
in un villaggio a qualche decina di chilometri dal confine afgano.
Negli scaffali polverosi ci sono delle polverose medicine; al muro una
bandiera verde e nera con al centro un sole in cui è scritto «Jihad».
Attorno al «dottore» che mi parla si sono riuniti una decina di giovani:
alcuni sono veterani della guerra, altri ci stanno per andare. Uno è
appena tornato dal fronte e racconta dei bombardamenti. Dice che gli
americani sono codardi perché sparano dal cielo, scappano e non osano
combattere faccia a faccia. (...) L’atmosfera è tesa. Qui, ancora più
che al bazar, tutti sono assolutamente convinti che quella in corso è
una grande congiura-crociata dell’Occidente per distruggere l’Islam, che
l’Afghanistan è solo il primo obbiettivo e che l’unico modo di
resistere è per tutto il mondo islamico di rispondere all’appello per la
guerra santa.
«Vengano pure gli americani, così ci potremo
procurare delle buone scarpe, togliendole ai cadaveri - dice uno dei
giovani -. A voi la guerra costa tantissimo. A noi nulla. Non
sconfiggerete mai l’Islam». Cerco di spiegare che la guerra in corso è
contro il terrorismo, non l’Islam, cerco di dire che l’obbiettivo della
coalizione internazionale guidata dagli americani non sono gli afgani,
ma Osama Bin Laden e i talebani. Non convinco nessuno. «Io non so chi
sia Osama - dice il «dottore» - non l’ho mai incontrato, ma se Osama è
nato a causa delle ingiustizie commesse in Palestina e in Iraq, sappiate
che le ingiustizie ora commesse in Afghanistan faranno nascere tanti,
tanti altri Osama».
Di questo sono convinto
e la prova è dinanzi ai miei occhi: l’ambulatorio è un centro di
reclutamento per la jihad, il «dottore» è il capo di un gruppo di venti
giovani che domani partirà per l’Afghanistan. Ognuno porterà un’arma,
del cibo e del danaro. L’addestramento? Tutti, dice il «dottore», han
fatto due mesi per imparare l’uso delle armi e le tecniche di
guerriglia. Ma quel che conta è l’istruzione religiosa ricevuta nelle
tante piccole scuole coraniche, le madrasse, sparse nella campagna.
Mi han portato a visitarne una.
Disperante. Seduti per terra, davanti a dei tavolinetti di legno, una
cinquantina di bambini - c’erano anche alcune bambine - dai tre ai dieci
anni, tutti pallidi, magri e consunti, cantilenavano senza interruzione
i versetti del Corano. Nella loro lingua? No, in arabo che nessuno sa.
«Sanno però che chi riesce a imparare tutto il Corano a memoria, lui e
tutta la sua famiglia andranno in paradiso per sette generazioni!», mi
ha spiegato il giovane barbuto che faceva da istruttore. Trentacinque
anni, sposato con cinque figli, ammalato di cuore, diceva che nonostante
le sue condizioni di salute, anche lui sarebbe andato a combattere.
Aspettava solo che gli americani scendessero dai loro aerei e si
facessero vedere al suolo. «Se non smettono di bombardare costituiremo
piccole squadre di uomini che andranno a mettere bombe e a piantare la
bandiera dell’Islam in America. Se verranno presi dall’Fbi si
suicideranno», diceva con un sorriso invasato.
A parte la memorizzazione del Corano
le madrasse insegnano poco o nulla, ma per le famiglie povere della
regione quella, pur miserissima, è l’unica educazione possibile. Il
risultato sono i giovani che oggi vanno alla jihad e il crescente potere
che i mullah, ugualmente ignoranti e ottusi, hanno sulla popolazione
delle campagne grazie al loro monopolio sulla religione e sui fondi dei
Paesi musulmani come l’Arabia Saudita. Dovunque ci siamo fermati in
quelle ore non ho sentito che discorsi carichi di fanatismo, di
superstizione, di certezze fondate sull’ignoranza. Eppure sentendo
parlare questa gente, mi chiedevo quanto anche noi, pur colti e
rimpinzati di conoscenze, siamo pieni di preteso sapere, quanto anche
noi finiamo per credere alle bugie che ci raccontiamo. (...)
Anche noi ci facciamo illudere dalle parole e
abbiamo davvero creduto che la prima operazione delle forze speciali
americane in Afghanistan era intesa a trovare il centro di comando dei
talebani, senza pensare che, come dice il mio amico pashtun «quel centro
non esiste o è al massimo una capanna di fango con un tappeto da
preghiera e qualche piccione viaggiatore, ora che i talebani non possono
più usare le loro radioline facilmente intercettabili dagli americani».
E non è il fanatismo di questi fondamentalisti, simile al nostro
arrogante credere che abbiamo una soluzione per tutto? Non è la loro
cieca fede in Allah, pari alla nostra fede nella scienza, nella tecnica,
nella abilità di mettere la natura al nostro servizio? È con queste
certezze che andiamo oggi a combattere in Afghanistan con i mezzi più
sofisticati, gli aerei più invisibili, i missili più lungimiranti per
rifarci di un atto di guerra commesso da qualcuno armato solo di
tagliacarte e di una ferma determinazione a morire. Come non rendersi
conto che per combattere il terrorismo siamo venuti a uccidere
innanzitutto degli innocenti e con ciò ad aizzare ancor più un cane che
giaceva? Come non vedere che abbiamo fatto un passo nella direzione
sbagliata, che siamo entrati in una palude di sabbie mobili e che con
ogni altro passo finiremo solo per allontanarci sempre di più dalla via
di uscita?
“The only people for me are the mad ones, the ones who are mad to live, mad to talk, mad to be saved, desirous of everything at the same time, the ones who never yawn or say a commonplace thing, but burn, burn, burn like fabulous yellow roman candles exploding like spiders across the stars.” Jack Kerouac- On the Road
mercoledì 14 gennaio 2015
VIAGGIO NELLE SCUOLE DOVE S'INSEGNA IL FANATISMO
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