venerdì 27 giugno 2014

La polvere del Messico

Difficilmente scrivo nel blog pezzi di altri, ma questo è talmente bello e passionale che non ho resistito a condividerlo.
È il prologo de "La polvere del Messico" libro scritto nel 1995 da Pino Cacucci, giornalista e scrittore esperto di Sud America, che ha vissuto per vari periodi in Messico.
"Un ricordo, in modo particolare, riaffiora ogni volta che penso a come sia cominciato il coinvolgimento vero, l'inizio di una vaga intuizione, divenuta poi consapevolezza che nulla sarebbe più stato come prima. È un'immagine curiosa nella sua banalità, la semplice attesa davanti alla macchina con l'ennesima rogna al motore, standosene sotto una tettoia di zinco su cui batteva una pioggia fine. Il meccanico la guardava senza dire niente, e ogni tanto sbirciava me, con un mezzo sorriso indecifrabile. La pioggia era solo una scusa. A nessuno, lì, importava nulla di bagnarsi, faceva abbastanza caldo da infradiciarsi comunque per l'umidità, e starsene sotto quella tettoia era soltanto una buona occasione per smettere di fare le cose di sempre. L'uomo aveva un'età indefinibile, forse era moto più vecchio di quanto apparisse, indossava una tuta di cui si era smarrita ogni memoria dell'originario colore, e teneva le mani in tasca senza decidersi a fare quel che io speravo: dire cosa secondo lui avesse il motore e quanto tempo ci sarebbe voluto per rimetterlo in sesto. Il suo volto era perfettamente messicano, secondo l'immaginario di cui disponevo in quel mio primo viaggio: tratti vagamente “apache” come ero abituato a vederli al cinema e lontane eredità andaluse un po' spagnolo e un po' indio, ma di quelli alti, da yaqui del nord. Più, ovviamente, i baffi bianchi e spioventi, che completavano il mio bagaglio da grande schermo ricco di Villa e Zapata posticci.
Lui continuava a non dire niente, e la pioggia a battere sulla lamiera di zinco. La strana sensazione che avvertivo l'avrei afferrata molto più tardi: stavo perdendo la fretta, l'ansia dei ritmi che mi ero portato appresso cominciava a sfaldarsi, e il sintomo impalpabile era quel semplice ascoltare la pioggia e smettere di chiedere la meccanico quanto tempo della realtà che mi circondava. Fino a quel momento lo avevo speso male, illudendomi di vedere più cose andando più in fretta. A un certo punto, mi ha detto: “Credo che pioverà anche domani”. Alla mia espressione vagamente contrariata, l'uomo aveva sorriso scuotendo la testa. Sapeva che non potevo capire, ma che era il momento giusto per cominciare a provarci. Così, stando fermi, ad ascoltare la pioggia.
Raccontandolo, non sembra significare granché. È solo un frammento, un punto di partenza. Ma ben poche altre cose, avrei scritto, senza quell'inizio, e senza il contatto, la conoscenza a volte fugace ma sempre profonda, di tante persone come lui. Il meccanico non saprà mai quanto sia stato utile per me quel lungo pomeriggio, fino al tramonto, fermi in mezzo a cumuli di ferraglia arrugginita e macchine spente. O forse l'ha saputo fin dal primo momento, notando il lento sgretolarsi della mia fretta di andare da nessuna parte. È per questo che sorrideva, e se ne stava zitto.
Le letture, il cinema, e ovviamente un po' di fantasia in funzione riciclante, mi sono sempre serviti, certo. Ma ho l'impressione che sarebbero rimasti un magma senz'anima, un'accozzaglia di dati, senza la vita vissuta accanto a genti così diverse da quelle tra cui sono cresciuto, senza la graduale scoperta di una differente dimensione del tempo e della percezione delle cose. Per me è stata la “messicanità”, come per altri può essere stata l'India o parte dell'Africa, a segnare il punto di svolta, a imprimere quel qualcosa di indefinibile che si respira nell'aria e si assorbe dai pori per poi tentare di trascriverlo sulla pagina, o di narrarlo su uno schermo per immagini, o su una tela, o in chissà quanti altri modi. E in ogni caso, esistono luoghi, i grandi “altrove” che non ci danno requie quando ne siamo lontani, capaci di scatenare pulsioni latenti, forse non di crearne di nuove, ma soltanto – e non è poco – rievocare sensazioni smarrite, assopite, rimaste in qualche meandro ad aspettare la scintilla che le risvegli.
Il Messico è il paese che per me rappresenta in modo sublime come la mescolanza di tante razze arricchisca immensamente una terra e un popolo, genti così abituate alla diversità da potersi concedere senza la minima riserva, pur conservando una forma di autodifesa istintiva, il freno naturale di fronte all'invasione di becere way of life geograficamente vicinissime eppure tenute a distanza siderale da un millennio di civiltà. Uno di quei luoghi dove si comincia a capire qualcosa solo quando si rinuncia a capire. Senza pretendere di trarne una regola universale, credo comunque che il contatto con “l'altro”, a qualsiasi latitudine, inizi con un gesto di resa incondizionata: la rinuncia a propri schemi e abitudini, liberandosi dall'inconfessata certezza che la realtà sia univoca e unidimensionale, e che tutto possa venire interpretato da un solo modo di guardare. L'ingrediente più nefasto della cultura occidentale credo sia proprio questa nostra ormai istintiva consuetudine ad analizzare e giudicare, filtrando i comportamenti altrui attraverso una rete di convenzioni che ci illudiamo siano assolute e scontate."
Pino Cacucci, settembre 1995
Il prologo de “La polvere del Messico"

Nessun commento:

Posta un commento